Cosa facevano davvero
le donne durante la Seconda guerra mondiale
di Clara Amodeo
C’è chi crede, e non è
solo la neo
eletta miss Italia Alice Sabatini,
che il ruolo delle donne durante la Seconda guerra mondiale fosse
quello di badare alla casa e ai figli in attesa del marito partito
per fare la guerra. Ma quella è una verità di parte. Dagli anni
Quaranta fino alla fine del conflitto, la figura femminile ha svolto
molte altre
mansioni, tanto
che gli studiosi parlano de “i lavori delle donne”, a indicare
che pluralità e multiformità di aspetti sono stati, anche in quegli
anni, le principali peculiarità dell’occupazione femminile.
A partire dalle campagne.
Qui alle donne vennero assegnati due compiti: quelli relativi alla
casa, dove quotidianamente sbrigavano le faccende domestiche,
crescevano i figli e curavano i più anziani, ma anche quelli
relativi alla coltivazione della terra. Nei campi le donne lavoravano
sia per l’autosostentamento
sia per conto dei proprietari terrieri come coadiuvanti nell’azienda
contadina o braccianti stagionali. L’esempio più idealizzato,
stereotipato (ma anche più presente nel sistema agricolo della Val
Padana) fu quello delle mondine,
le “sfruttate”, come esse stesse si definirono nell’omonimo
canto, impegnate nella piantumazione e nella raccolta del riso.
Anche dai campi partì
quell’ampia ondata di scioperi,
maschili e femminili, che a partire dal 1944 portò le donne, a
questo punto organizzate dai partiti e nei gruppi di difesa, a
impegnarsi nella Resistenza. Iniziarono così a svolgere azioni di
affiancamento alla lotta di liberazione: nacquero le figure delle
“staffette
partigiane”,
giovani ragazze che portavano messaggi e armi da un battaglione di
combattenti all’altro. Queste figure operavano anche in città,
dove non mancavano le fabbriche che, proprio in quegli anni, aprirono
le porte anche alle figure femminili per sostituire gli uomini
chiamati a combattere e per sostenere la produzione bellica. Alle
donne vennero così affidati ruoli
lavorativi nelle industrie
tessili e dell’abbigliamento, nelle industrie alimentari, fino a
quelle chimiche per la lavorazione dei minerali, della carta, delle
pelli, del legno e dei trasporti.
Pure nel terziario le donne
ebbero il loro bel daffare. Nell’assistenza, ambito femminile per
eccellenza, furono tanto rare le donne medico quanto diffuse le
infermiere,
le levatrici e le balie. A loro, nella retorica di regime, si
affiancavano le maestre,
donne in grado, così come le infermiere, di “esplicare quelle doti
che ogni donna ha in sé anche inconsapevolmente. Ossia sacrificio,
dedizione e rinuncia, dimenticanza di sé, abnegazione”, come si
legge nel volume
Donne e lavoro: un’identità difficile.
Ma non facciamoci prendere dall’entusiasmo: le donne furono escluse
dall'insegnamento superiore, mentre alle elementari venne sempre dato
maggiore risalto alla la figura del maestro maschio.
Perché per la retorica
fascista la
donna era sì quella che, dedita al lavoro domestico, avrebbe dovuto
provvedere esclusivamente alla riproduzione e all’amministrazione
della casa. La famiglia, numerosa e fascista, era infatti al centro
della propaganda e della costruzione del modello dittatoriale: al suo
interno il ruolo che spettava alle donne era quello di moglie e
madre, ma in una posizione subordinata all’uomo. Il loro corpo era
nazionalizzato e la maternità si trasformava in un dovere nei
confronti della patria. Ma anche questa è una verità di parte.
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