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giovedì 15 novembre 2018

Pugno chiuso, pugno alzato o saluto rosso : significato

 

In data odierna al Senato è scoppiato un gran putifèrio per il gesto del pugno alzato che l'onorevole Toninelli avrebbe fatto nell'aula del Senato sul decreto Genova (vedere link). Cosa significa il pugno alzato o pugno chiuso?

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Pugno alzato

 
Il pugno alzato è un saluto spesso utilizzato da militanti e simpatizzanti politici e sociali di area comunista e socialista, rivendicativo ed antisistema. In genere il saluto a pugno, con il braccio alzato sinistro o destro che sia, è considerato come espressione e manifestazione di solidarietà, di forza o di sfida. 


Il pugno alzato è anche denominato pugno chiuso, specialmente nella locuzione "saluti a pugno chiuso" usata dai comunisti. Da notare che il saluto a pugno può essere denominato in modo diverso a seconda dei gruppi o movimenti che lo usano: tra i comunisti e i socialisti è a volte chiamato saluto rosso.

Durante la guerra civile spagnola (1936-1939) ed il periodo del Fronte Popolare francese era noto come saluto antifascista ed eseguito con il pugno destro.

 

 

Origini e significato

In principio il pugno è un simbolo di unità e di solidarietà, rappresentato dalle dita deboli che si uniscono per creare qualcosa di potente. Le dita sono state interpretate anche come rappresentazione delle divisioni nel movimento operaio che, una volta superate con lo studio e la lotta, creano tutte insieme uno strumento forte e potente come un pugno. Il simbolo del pugno serrato destro viene adottato per la prima volta dal Rotfrontkämpferbund (Lega dei soldati rossi di prima linea) tra il 1923 e il 1924

I membri di tale organizzazione iniziarono a salutarsi portando il pugno, in contrapposizione al saluto dei nazisti (braccio e mano destra distesi) piegando il braccio - destro - in modo che la mano chiusa a pugno fosse all'altezza del petto, come per portare un vero pugno. Il pugno chiuso diventa il simbolo stesso del Rotfrontkämpferbund. Già nel 1925 il pugno si era staccato dal petto per portarsi all'altezza della spalla destra.

Durante la Guerra civile spagnola il pugno viene portato all'altezza della tempia destra, ma verso la fine del conflitto il pugno torna all'altezza della spalla destra (vedasi ogni fonte iconografica del tempo disponibile, a partire, per esempio, dalle foto del notissimo reporter Robert Capa eseguite in Spagna).

Altre fonti iconografiche e filmiche ci riportano all'uso più recente del pugno - destro - serrato e braccio piegato, fra i movimenti di sinistra, durante il periodo di governo di Unidad Popular (1970-1973) nel Cile di Salvador Allende, tragicamente finito a causa del golpe militare dell'11 settembre 1973, golpe al quale il governo degli Stati Uniti fornì sostegno[1].

Fino alla metà degli anni sessanta il pugno alzato viene usato come saluto, ma con i funerali di Togliatti, 1964, il pugno assume due valenze: durante i funerali viene disteso a simboleggiare la sacralità del momento e torna, in definitiva ad avere un carattere militare, ma durante i cortei e le manifestazioni viene mosso cadenzando lo slogan assumendo un carattere di compattamento dei manifestanti. 

Verso la fine degli anni sessanta le rivolte studentesche iniziano ad usare in forma massiccia il braccio sinistro col pugno serrato per l'evidente ragione che la sinistra politica è il punto di riferimento delle lotte del proletariato
Con il tempo il pugno alzato si trasforma da saluto militante in simbolo di lotta adottato dai comunisti.

 

Altri usi

Il pugno alzato venne usato anche dal movimento afroamericano del Potere Nero (pugno chiuso guantato di nero), dai movimenti per i diritti civili statunitensi (specie nell'area radicale) e dai peronisti di sinistra argentini (imitando alcuni gesti tipici di Evita Perón)[2].

domenica 11 novembre 2018

Inno Fratelli D'Italia - ITALY National Anthem


ITALY National Anthem English Lyrics and Translation full version Inno nazionale Italiano

 

LINK DI APPROFONDIMENTO :

STORIA DELL'INNO

Canti Prima Guerra Mondiale : La leggenda del Piave (1918 - Ermete Giovanni Gaeta)


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La canzone del Piave



La canzone del Piave, conosciuta anche come La leggenda del Piave, è una delle più celebri canzoni patriottiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (noto con lo pseudonimo di E.A. Mario).
Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il governo italiano l'adottò provvisoriamente come inno nazionale, poiché si pensò fosse giusto sostituire la Marcia Reale[1][2] con un canto che ricordasse la vittoria dell'Italia nel primo conflitto mondiale[3]. La monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura fascista[4]. La canzone del Piave ebbe la funzione di inno nazionale italiano fino al 12 ottobre 1946, quando fu sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro[5]. L'inno nazionale definitivo in sostituzione del provvisorio Inno di Mameli avrebbe dovuto essere proprio La Canzone del Piave, ma il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi non avrebbe caldeggiato la candidatura della canzone perché offeso da Gaeta che si rifiutò di comporre l'inno ufficiale della Democrazia Cristiana[3][6][7].

I fatti storici



I fatti storici che ispirarono l'autore risalgono al giugno del 1918, quando l'Impero austro-ungarico decise di sferrare un grande attacco (ricordato con il nome di battaglia del solstizio) sul fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l'esercito italiano, già reduce dalla sconfitta di Caporetto. L'esercito imperiale austriaco si avvicinò pertanto alle località venete delle Grave di Papadopoli e del Montello, ma fu costretta ad arrestarsi a causa della piena del fiume. Ebbe così inizio la resistenza delle Forze armate del Regno d'Italia, che costrinse gli austro-ungarici a ripiegare.
Il 4 luglio del 1918, la 3ª Armata del Regio Esercito Italiano occupò le zone tra il Piave vecchio ed il Piave nuovo. Durante la battaglia morirono 84.600 militari italiani e 149.000 austro-ungarici. In occasione dell'offensiva finale italiana dopo la battaglia di Vittorio Veneto, nell'ottobre del 1918, il fronte del Piave fu nuovamente teatro di scontri; dopo una tenace resistenza iniziale, in concomitanza con lo sfaldamento politico in corso nell'Impero, l'esercito austro-ungarico si disgregò rapidamente, consentendo alle truppe italiane di sfondare le linee nemiche.

La composizione

La leggenda del Piave fu composta nel giugno 1918[8] subito dopo la battaglia del solstizio, da E. A. Mario, pseudonimo di Ermete Giovanni Gaeta, un prolifico autore di canzoni napoletane che spaziava dalle canzonette alle canzoni militari[3]. Ben presto venne fatta conoscere ai soldati dal cantante Enrico Demma (Raffaele Gattordo)[9]. L'inno contribuì a ridare morale alle truppe italiane, al punto che il generale Armando Diaz inviò un telegramma all'autore nel quale sosteneva che aveva giovato alla riscossa nazionale più di quanto avesse potuto fare lui stesso: «La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!»[10]. Venne poi pubblicata da Giovanni Gaeta con lo pseudonimo di E. A. Mario il 20 settembre del 1918[11], circa quaranta giorni prima della fine delle ostilità.
Il testo e la musica, che fanno pensare ad una canzone patriottica con la funzione di incitare alla battaglia, hanno l'andamento colto e ricercato di altre canzoni che già avevano fatto conoscere Giovanni Gaeta nell'ambiente del cabaret; sue sono anche Vipera, Le rose rosse, Santa Lucia luntana, Balocchi e profumi. La funzione che ebbe La leggenda del Piave nel primo dopoguerra fu quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, le sofferenze e i lutti che l'avevano caratterizzata.

Il frontespizio e il testo



Lo spartito originale fu pubblicato solo dopo la guerra[6]. Il frontespizio presentava un'incisione dell'illustratore Amos Scorzon, un'aquila bicipite (l'Austria) trafitta da un gladio (l'Italia) coperto di sangue con inciso SPQR nell'elsa, insieme a una frase scritta dal poeta Gabriele D'Annunzio: «Non c'è più se non un fiume in Italia, il Piave; la vena maestra della nostra vita. Non c'è più in Italia se non quell'acqua, soltanto quell'acqua, per dissetar le nostre donne, i nostri figli, i nostri vecchi e il nostro dolore»[6]. Sempre il frontespizio riportava i dati del compositore: «Versi e musica E. A. Mario, casa editrice musicale E. A. Mario, via Vittorio Emanuele Orlando 9, Napoli»; e la precisazione che il fiume Piave era consacrato «ai soldati che lo santificarono, agli alleati che lo ammirarono, ai nemici che lo ricorderanno»[6].
Le quattro strofe - che terminano tutte con la parola "straniero" - hanno quattro specifici argomenti:
  1. La marcia dei soldati verso il fronte (appare come una marcia a difesa delle frontiere, mentre fu l'Italia ad attaccare l'impero asburgico)
  2. La ritirata di Caporetto
  3. La difesa del fronte sulle sponde del Piave
  4. L'attacco finale e la conseguente vittoria


Nella prima strofa, il fiume Piave assiste al concentramento silenzioso di truppe italiane, citando la data dell'inizio della Prima guerra mondiale per il Regio Esercito italiano. Ciò avvenne la notte tra il 23 e 24 maggio 1915, quando l'Italia dichiarò guerra all'Impero austro-ungarico e sferrò il primo attacco contro l'Imperial regio Esercito, marciando dal presidio italiano di Forte Verena dell'Altopiano di Asiago, verso le frontiere orientali. Proprio un primo colpo di cannone partito dal Forte Verena verso le fortezze austriache situate sulla Piana di Vezzena diede ufficialmente inizio alle operazioni militari dell'Italia nella prima guerra mondiale. La strofa termina poi con l'ammonizione: Non passa lo straniero, riferita, appunto, agli austro-ungarici.
Tuttavia, come racconta la seconda strofa, a causa della disfatta di Caporetto, il nemico cala fino al fiume e questo provoca sfollati, profughi da ogni parte.
La terza strofa racconta del ritorno del nemico con il seguito di vendette di ogni guerra, e con il Piave che pronuncia il suo "no" all'avanzata dei nemici e la ostacola gonfiando il suo corso, reso rosso dal sangue dei nemici. Benché arricchita di spunti patriottico-retorici, l'improvvisa e copiosa piena del Piave costituì davvero un ostacolo insormontabile per l'esercito austriaco, ormai agli sgoccioli con gli approvvigionamenti e il sostegno di truppe di riserva.
Nell'ultima strofa si immagina che una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, con la vittoria tornassero idealmente in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti, tutti uccisi dagli austriaci.

Le varianti del testo



All'epoca della prima stesura di questo brano, si pensava che la responsabilità per la disfatta di Caporetto fosse da attribuire al tradimento di un reparto dell'esercito[12]. Per questo motivo, al posto del verso "Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento" vi era la frase "Ma in una notte triste si parlò di tradimento". In seguito, durante il regime fascista fu appurato che il reparto ritenuto responsabile era invece stato sterminato da un attacco con gas letali; si pensò così di eliminare dalla canzone il riferimento all'ipotizzato tradimento[13], considerato non solo impreciso storicamente ma anche sconveniente per il regime[14].
"La canzone del Piave", comunemente detta fra i musicanti "Il Piave", viene eseguita sia in formazioni bandistiche ordinarie, sia da grandi bande o orchestre di fiati, istituzionali e non istituzionali, specialmente in occasione delle celebrazioni per la Festa della Repubblica, in occasione dell'Anniversario della liberazione e della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate. Questi versi e la loro solenne, seppur a tratti adulterata, rievocazione storica, fecero sì che da più parti si levasse la richiesta di adottarlo come inno nazionale, cosa che avvenne solo dal 1943 al 1946 in seguito ai fatti connessi all'armistizio di Cassibile[15]. La monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura fascista[4]. La canzone del Piave fu poi sostituita da Il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro, come inno nazionale italiano, il 12 ottobre 1946[5].
Nel 1961 il comune di Roma deliberò di denominare una strada via canzone del Piave nel quartiere Giuliano-Dalmata, nella cui toponomastica sono largamente rappresentati personaggi ed eventi della prima guerra mondiale; la denominazione costituisce un caso rarissimo di toponimo urbano ispirato a un brano musicale[16].
Solitamente è eseguita da bande e fanfare in occasione della posa delle corone ai monumenti ai caduti immediatamente dopo all'inno nazionale.
La canzone del Piave è stata riproposta come inno nazionale italiano il 21 luglio del 2008 da Umberto Bossi[17].
Musicalmente è abbastanza semplice, in Fa maggiore con quattro strofe senza ritornelli e senza modulazioni: le quinte dominanti riconducono sempre alla stessa tonalità.

la grande guerra - scena emblematica

La Grande Guerra (Monicelli) - La Battaglia del Piave

11 novembre 2018 celebrazioni in Francia per centenario fine Prima Guerra Mondiale

Il Papa ricorda il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale

domenica 4 novembre 2018

Centenario fine Prima Guerra Mondiale : film "Uomini Contro" di Francesco Rosi

VEDERE LINK

Mattarella celebra il Centenario della Grande Guerra a Trieste

(Agenzia Vista) - Trieste, 4 Novembre 2018 - Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto alla cerimonia celebrativa del centenario della fine della Grande Guerra che ha avuto luogo in piazza Unità d’Italia a Trieste, nel Giorno dell'Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate. / Fonte Quirinale

Mattarella ricorda le donne della Grande Guerra: "Senza di loro non avre...



(Agenzia Vista) - Trieste, 4 Novembre 2018 - Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto alla cerimonia celebrativa del centenario della fine della Grande Guerra che ha avuto luogo in piazza Unità d’Italia a Trieste, nel Giorno dell'Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate. Così Mattarella: "Una borghese, una donna del popolo e una regina rappresentative di tutte le donne italiane che lottarono al fronte o nelle fabbriche, che curarono da sole i propri figli, che si prodigarono per cucire abiti, procurare cibo o assistere feriti e moribondi". / Fonte Quirinale

sabato 3 novembre 2018

Francesco Baracca, l’asso degli assi dell’aviazione italiana (PRIMA GUERRA MONDIALE)

 

Per la rubrica I Luoghi - Centenario della Grande Guerra, Qdpnews.it presenta: "Francesco Baracca, l’asso degli assi dell’aviazione italiana." Siamo andati nei luoghi che lo hanno visto protagonista con l’intento di raccontare la straordinaria epopea del cavaliere dei cieli. Francesco Baracca. Gli antichi greci sostenevano che “Muore giovane chi è caro agli dei”. Un destino a cui non è sfuggito l’asso dei cieli, Francesco Baracca, abbattuto il 19 giugno 1918 sui cieli di Nervesa a soli 30 anni. Decorato con due medaglie d’argento e una medaglia d’oro al valore militare, Francesco Baracca nonostante la breve carriera è considerato da tutti un eroe. I 34 abbattimenti in 63 combattimenti aerei, lo consacrano “Asso degli Assi”.

 https://youtu.be/Eg1J1wD3gNc

La Grande Guerra delle Donne

Le donne durante la ''Grande guerra''

Donne nella Grande Guerra

Le Grandi Donne e La Grande Guerra

giovedì 1 novembre 2018

PROFUGHI – Con parole loro

Movimenti nelle retrovie (Grande Guerra)


sangiorgio.comune.pistoia.it

Movimenti nelle retrovie



3-24 novembre 2018 - Sala Dipartimenti
Inaugurazione sabato 3 novembre, ore 17


Il profugato negli anni 1917-1918 della Grande Guerra a cura dell'Associazione Bellunesi nel mondo.
 

La mostra fa parte delle iniziative del CUDIR, Comitato unitario per la difesa delle istituzioni repubblicane del Comune di Pistoia. Prima Guerra mondiale. Occupazioni, migrazioni, emancipazioni

La Grande Guerra da un insolito punto di vista, per gettare uno sguardo sulle “retrovie” dell’evento che cambiò il corso della storia. Questo è l’obiettivo della mostra: “I Guerra Mondiale. Movimenti nelle retrovie. Occupazioni, migrazioni, emancipazioni”, curato dall’Associazione Bellunesi nel Mondo assieme ad altri partner e realizzato grazie al contributo della Regione Veneto.
 

La Prima Guerra Mondiale, infatti, fu combattuta dai soldati, ma non solo. Ebbe un peso enorme anche sulla popolazione civile, soprattutto nel Nord-est d’Italia, dove gli eventi bellici condizionarono profondamente la vita di paesi e città, con imponenti fenomeni demografici nelle retrovie e nelle zone prossime al fronte, con carestie, fame, pandemie e paralisi economiche, con lo stretto contatto forzato tra “invasi” e “invasori”, con l’incontro culturale e linguistico tra italiani provenienti da varie regioni, primo vero passo verso una coscienza nazionale collettiva. 

La guerra “sulle porte di casa” ebbe l’effetto di una violenta bufera che rimescolò genti e abitudini di vita di regioni come il Veneto (in particolare nelle province di Belluno e Treviso), sommando alle devastazioni portate dal conflitto le tristi vicende dell’occupazione, dell’internamento e del confino che interessarono uomini, donne, vecchi e bambini in un unico e sconvolgente quadro di lacerazione delle famiglie e del tessuto sociale delle comunità.
 

L’impatto della guerra diede però anche spinta all’emancipazione femminile, con le donne in prima linea nel lavoro, e coinvolse come testimoni i più piccoli, tra i più istruiti in un ambito sociale di diffuso analfabetismo.
A questi “movimenti nelle retrovie”, si aggiunse anche un imponente fenomeno migratorio, prima, durante e dopo la guerra. La mostra, basata su immagini e documentazioni dell’epoca provenienti da archivi sia nazionali che locali e costituito da una dozzina di pannelli bifacciali 100×200, un depliant informativo, e un audiovisivo.


Perché portare questa mostra a Pistoia? Perché proprio da Belluno e in generale profughi bellunesi e veneti tra il novembre del 1917 e il novembre 1918, a seguito dell’invasione dell’esercito austroungarico e tedesco che aveva sfondato le difese italiane a Caporetto, si rifugiarono a Pistoia, dove trovarono ospitalità. Oltre 30.000 bellunesi, 5.300 della sola Città di Belluno, fuggirono per evitare l’occupazione austrotedesca. 

Coloro che rimasero trascorsero uno dei più difficili anni della nostra storia, conosciuto come l’An de la fan. Gli oltre 30.000 profughi bellunesi, invece, cercarono aiuto nel resto d’Italia. Molti di loro furono ospitati in Toscana e soprattutto a Pistoia, dove ripararono anche il prefetto ed il sindaco di Belluno, che da là tentarono di tenere i rapporti con la Città e coi profughi.