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domenica 29 gennaio 2017

Giorno della memoria : vagoni e deportazioni


Queste sono le mie foto scattate ad un vagone ferroviario usato per la deportazione nei campi di sterminio e sistemato in una piazza della città come monito (www.gonews.it).


 

 


Fonte : https://www.ushmm.org/wlc/it/article.php?ModuleId=10005372

Le deportazioni nei centri di sterminio

Durante la Seconda Guerra Mondiale e all’interno del piano di riorganizzazione etnica dell’Europa dell’Est, i Nazisti usarono sia le linee ferroviarie che altri mezzi per trasferire i membri dei vari gruppi etnici presi di mira e costringerli ad abbandonare le zone in cui risiedevano. Nel 1941, i leader nazisti decisero poi di realizzare la “Soluzione Finale” cioè l’uccisione sistematica e in massa dell’intera popolazione ebraica europea. 

Le autorità tedesche usarono il sistema ferroviario di tutto il continente per trasferire, o meglio deportare, gli Ebrei dalle proprie case alle loro varie destinazioni, le quali si trovavano principalmente nell’Europa orientale. Una volta cominciato ad eliminare metodicamente gli Ebrei nei centri di sterminio che avevano creato appositamente, i Tedeschi usarono regolarmente i treni per trasferire le loro vittime, e nel caso i treni non fossero disponibili, o le distanze fossero troppo brevi, utilizzarono anche i camion e le marce forzate.

Il 20 gennaio 1942, le SS, i membri del Partito Nazista e un certo numero di funzionari statali si riunirono durante la Conferenza di Wannesee, nei pressi di Berlino, per coordinare le deportazioni degli Ebrei europei verso i centri di sterminio, sia quelli già funzionanti che quelli ancora in costruzione nella Polonia occupata. I partecipanti alla conferenza calcolarono che la “Soluzione Finale” avrebbe portato alla deportazione e successiva eliminazione di 11 milioni di Ebrei, compresi quelli che risiedevano in paesi non sotto il controllo della Germania, come l’Irlanda, la Svezia, la Turchia e la Gran Bretagna.

Deportazioni di queste dimensioni richiedevano la collaborazione di diversi enti statali, tra i quali l’Ufficio Centrale di Sicurezza del Reich (RSHA), l’Ufficio Centrale di Polizia, il Ministero dei Trasporti e quello degli Esteri. In particolare, la RSHA o SS regionale e gli alti gradi della Polizia avevano il compito di organizzare le deportazioni e spesso vi partecipavano direttamente; la Polizia invece, sovente con l’aiuto di ausiliari o di altri collaboratori reclutati a livello locale nei paesi occupati, prima radunava gli Ebrei e poi li deportava nei centri di sterminio. 

In collaborazione con il Dipartimento IV B4 della RSHA, comandato dal Tenente Colonnello Adolf Eichmann, il Ministero dei Trasporti coordinava invece gli orari ferroviari, mentre il Ministero degli Esteri aveva il compito di negoziare con le nazioni alleate dell’Asse il trasferimento in mani tedesche degli Ebrei residenti in quei paesi.
I Tedeschi, nel tentativo di camuffare le proprie intenzioni, cercarono di presentare le deportazioni come il “re-insediamento” della popolazione ebraica in campi di lavoro all’Est. In realtà, il termine “re-insediamento all’Est” non era che un eufemismo per il trasporto nei centri di sterminio e la successiva eliminazione in massa dei prigionieri.

I funzionari tedeschi delle ferrovie usarono sia treni merci che treni passeggeri per le deportazioni, durante le quali generalmente ai prigionieri non venivano distribuiti né cibo né acqua, nemmeno quando i vagoni dovevano sostare per giorni in prossimità dei raccordi ferroviari, in attesa che altri convogli transitassero. Ammassati all’interno di quei vagoni merci - che erano stati chiusi ermeticamente - i prigionieri soffrivano per il sovraffollamento, per il caldo torrido d’estate e il freddo gelido durante l’inverno. Ad esclusione di un secchio, non c’erano altri sanitari e l’odore di escrementi e urina si aggiungeva così alle sofferenze e alle umiliazioni già patite dai deportati, molti dei quali morirono ancora prima di raggiungere le loro destinazioni per la mancanza di cibo e acqua. Guardie e poliziotti armati scortavano i trasporti con l’ordine di sparare a chiunque cercasse di scappare.

Tra il dicembre 1941 e il luglio 1942, le SS e la polizia crearono cinque centri di sterminio nella Polonia occupata dai Tedeschi: Chelmo, Belzec, Sobibor, Treblinka 2 (Treblinka 1 era invece un campo per Ebrei destinati ai lavori forzati) e Auschwitz-Birkenau, anche conosciuto come Auschwitz II. Nel Distretto di Lublino, nel Governatorato Generale (cioè quella parte del territorio polacco non ufficialmente annesso alla Germania, ma comunque occupato dai Tedeschi e che si trovava in parte vicino alla Prussia Orientale e in parte all’interno della zona dell’Unione Sovietica già occupata dai Tedeschi) le SS e le forze di polizia amministrarono e coordinarono le deportazioni a Belzec, Sobibor e Treblinka, in quella che venne chiamata “Operazione Reinhard”.

La maggior parte delle vittime a Belzec furono Ebrei provenienti dalla Polonia sudorientale e meridionale, ma anche Ebrei deportati tra l’ottobre 1941 e la fine dell’estate del 1942 nel Distretto di Lublino e provenienti dalla cosiddetta Grande Germania (che comprendeva la Germania stessa, l’Austria, i Sudeti e il Protettorato di Boemia e Moravia). La maggior parte degli Ebrei deportati a Sobibor proveniva invece dal Distretto di Lublino stesso; ma nella primavera e estate 1943 le autorità tedesche deportarono a Sobibor anche Ebrei francesi e olandesi, nonché, sempre alla fine dell’estate dello stesso anno, piccoli gruppi di Ebrei sovietici provenienti dai ghetti della Bielorussia e della Lituania. 

Funzionari tedeschi trasferirono invece a Treblinka 2 gli Ebrei dei distretti di Varsavia e Radom, nel Governatorato Generale, e del distretto di Bialystock. A Treblinka 2 gli Ebrei venivano uccisi dalle SS e dagli agenti di polizia. Tra il gennaio 1942 e la primavera del 1943, e poi all’inizio dell’estate del 1944, le autorità tedesche deportarono a Chelmo la maggior parte degli Ebrei residenti nel ghetto di Lodz, così come i Rom e i Sinti (Zingari) che erano riusciti a sopravvivere fino a quel momento.

Nel 1943 e nel 1944, il centro di sterminio di Auschwitz-Birkenau ebbe un ruolo centrale nel piano tedesco per eliminare gli Ebrei europei. A partire dalla fine dell’inverno 1943, i treni cominciarono ad arrivare regolarmente ad Auschwitz-Birkenau trasportando Ebrei provenienti praticamente da tutti i paesi europei occupati dai Tedeschi, a partire dalla Norvegia, all’estremo nord, fino all’isola di Rodi a sud, vicino alla costa turca (Rodi a quel tempo apparteneva alla Grecia); dai pendii dei Pirenei francesi, a ovest, fino ai Paesi Baltici e al punto più estremo a oriente raggiunto dall’occupazione tedesca in Polonia. 

Un altro campo di concentramento, situato nei pressi di Lublino e conosciuto con il nome di Majdanek, venne utilizzato come luogo per l’uccisione di gruppi particolari di Ebrei e di non Ebrei, uccisione che avveniva principalmente con il gas, ma anche con altri mezzi.
In totale, in quei cinque centri di sterminio, i Tedeschi uccisero circa 3 milioni di Ebrei.

L’EUROPA OCCIDENTALE E SETTENTRIONALE
I Tedeschi, aiutati da collaboratori locali, deportarono gli Ebrei dall’Europa occidentale facendoli spesso passare prima da campi di transito come quello di Drancy in Francia, Westerbork in Olanda e Mechelen in Belgio. Dei circa 75.000 Ebrei deportati dalla Francia, più di 65.000 furono trasferiti prima a Drancy e poi a Auschwitz-Birkenau, e circa 2.000 a Sobibor. I Tedeschi deportarono inoltre più di 100.000 Ebrei dall’Olanda, quasi tutti provenienti Westerbork, di cui circa 60.000 ad Auschwitz e più di 34.000 a Sobibor. 

Tra l’agosto 1942 e il luglio 1944, 28 treni trasportarono ad Auschwitz-Birkenau, passando per Mechelen più di 25.000 Ebrei provenienti dal Belgio.
Nell’autunno del 1942, i Tedeschi catturarono circa 770 Ebrei norvegesi e li deportarono ad Auschwitz, prima via mare e poi con i treni. Invece, il tentativo di deportare gli Ebrei di Danimarca, nel settembre del 1943, fallì grazie alla Resistenza danese che, avvisata della retata imminente, organizzò una fuga in massa degli Ebrei verso la neutrale Svezia.

L’EUROPA MERIDIONALE
I Tedeschi deportarono anche gli Ebrei dalla Grecia, dall’Italia e dalla Croazia. Tra il marzo e l’agosto 1943, le SS e gli agenti di polizia deportarono più di 40.000 Ebrei da Salonicco, nella Grecia settentrionale, ad Auschwitz-Birkenau dove il personale del campo ne uccise immediatamente la maggior parte nelle camere a gas. Dopo che i Tedeschi ebbero occupato l’Italia, nel settembre del 1943, deportarono circa 8.000 Ebrei, la maggior parte ad Auschwitz-Birkenau. Grazie all’accordo con la Croazia, alleata dell’Asse, i Tedeschi presero in custodia circa 7.000 Ebrei croati e li deportarono ad Auschwitz-Birkenau.

La gendarmeria bulgara, insieme a unità dell’esercito, catturò e deportò circa 7.000 Ebrei che risiedevano in Macedonia (la quale in precedenza aveva fatto parte della Jugoslavia, prima di essere occupata dai Bulgari) dopo averli fatti passare per il campo di transito di Skopje. Le autorità bulgare concentrarono invece i circa 4.000 Ebrei che risiedevano in Tracia – anch’essa occupata dalla Bulgaria – in due diversi punti di raccolta e li consegnarono poi ai Tedeschi. In tutto, la Bulgaria deportò nei territori controllati dalla Germania più di 11.000 Ebrei, che vennero poi trasferiti a Treblinka 2 e uccisi nelle camere a gas.

L’EUROPA CENTRALE
Le autorità tedesche cominciarono a deportare gli Ebrei dalla Grande Germania nell’ottobre del 1941, quando la costruzione dei centri di sterminio era ancora nella fase di progettazione. Tra il 15 ottobre 1941 e il 4 novembre 1941, i Tedeschi deportarono 20.000 Ebrei nel ghetto di Lodz. Tra l’8 novembre 1941 e l’ottobre del 1942, i Tedeschi deportarono approssimativamente 49.000 Ebrei dalla Grande Germania a Riga, Minsk, Kovno e Raasiku che si trovavano nel territorio commissariato dell’Ostland (cioè la Bielorussia, la Lituania, la Lettonia e l’Estonia, tutte occupate dai Tedeschi). Le SS e la polizia uccisero la maggior parte dei deportati immediatamente al loro arrivo nell’Ostland. Tra il marzo e l’ottobre del 1942, le autorità tedesche deportarono poi circa 63.000 Ebrei tedeschi, austriaci e cecoslovacchi nel ghetto di Varsavia e in altre località del Distretto di Lublino, incluse Krasnystaw e Izbica che erano al contempo ghetti e campi di transito, e nel centro di sterminio di Sobibor. Gli Ebrei tedeschi residenti nei ghetti di Lodz e di Varsavia, insieme agli Ebrei polacchi, furono invece deportati più tardi, nei centri di Chelmo e Treblinka 2 e, a partire dal 1944, ad Auschwitz-Birkenau.

Il primo trasporto ad Auschwitz di Ebrei provenienti dalla Grande Germania arrivò il 18 luglio 1942, dopo essere passato da Vienna. Dalla fine dell’ottobre 1942 al gennaio 1945, i Tedeschi deportarono ad Auschwitz-Birkenau più di 70.000 Ebrei residenti nei territori della Grande Germania. I Nazisti, inoltre, deportarono gli Ebrei più anziani o importanti, e provenienti dalla Germania, dall’Austria, dal Protettorato di Boemia e Moravia e dall’Europa Occidentale, all’interno del ghetto di Theresienstadt, il quale fu anche utilizzato come campo di transito prima della deportazione verso est, soprattutto verso Auschwitz-Birkenau. Con la cooperazione delle autorità slovacche, i Tedeschi deportarono più di 50.000 Ebrei nei campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau e di Majdanek, dove furono spesso tra i primi ad essere selezionati per lo sterminio nelle camere a gas, specialmente a Birkenau. Nell’autunno del 1944, durante l’insurrezione slovacca, le SS e la polizia deportarono altri 10.000 Ebrei ad Auschwitz-Birkenau. Questa deportazione fu l’ultima di grandi dimensioni verso un centro di sterminio.

Tra il marzo del 1942 e il novembre del 1943, le SS e la polizia deportarono circa 1.526.000 Ebrei nei centri di sterminio dell’Operazione Reinhard, cioè Belzec, Sobibor e Treblinka, per la maggior parte utilizzando convogli ferroviari. Tra l’8 dicembre 1941 e il marzo 1943, e di nuovo tra il giugno e il luglio 1944, le SS e la polizia deportarono circa 156.000 Ebrei e alcune migliaia di Rom e Sinti nel centro di sterminio di Chelmo, con i treni, i camion e perfino a piedi. Tra il marzo 1942 e il dicembre 1944, le autorità tedesche deportarono invece circa 1.100.000 Ebrei e 23.000 Rom e Sinti ad Auschwitz-Birkenau, la maggior parte su convogli ferroviari. Meno di 500 sopravvissero ai centri di sterminio dell’Operazione Reinhard. Solo un piccolo gruppo di Ebrei si salvò perché riuscì a fuggire dai vagoni e a evitare la deportazione a Chelmo: non si conosce nessun altro che sia riuscito a sopravvivere dopo l’arrivo nel centro di sterminio di Chelmo. Invece, si pensa che almeno 100.000 Ebrei siano forse riusciti a salvarsi ad Auschwitz-Birkenau grazie al fatto di essere stati scelti per i lavori forzati al loro arrivo nel campo.

 

Principali deportazioni nei campi di sterminio: 1942-1944

 
Alcuni Ebrei obbligati a salire su un treno diretto al campo di sterminio di Belzec. Lublino, Polonia, 1942.   



I due ferrovieri si fermarono.
Uno dei due alzò i suoi occhi azzurri e disse col suo accento cantilenante: "Gente, povera gente! Se solo sapeste dove state andando, vorreste rimanere qui per sempre, e senza acqua". I ferrovieri continuarono a passeggiare lasciando il treno nello sconcerto. Erano già le nove del mattino quando i primi venti vagoni furono sganciati dal resto del treno e una locomotiva li ha tirati via lungo un binario parallelo al nostro.

Frank Stiffel nasce nel 1916 a Borysław, viene deportato il 4 settembre 1942 dal ghetto di Varsavia. Arriva a Treblinka, dove rimane una settimana e da cui riesce a fuggire.

domenica 15 gennaio 2017

Non nobis domine : inno dei templari


"Grazie a tutti per le visualizzazioni, questo messaggio è diretto a tutti noi: Oggi, c'è chi si crede giusto e infallibile e chi , saggiamente ammette l'imperfezione dei propri  peccati. I cavalieri Templari, quelli veri del passato, rappresentavano, il ravvedimento nella sofferenza e nel coraggio, e la morte l'affrontavano con la serenità di chi paga il proprio debito. In ognuno, di voi, c'è questo, un cavaliere Templare che è di guardia nell'anima. 

L'importante è essere pronti a difendere fede, famiglia e la terra che copre le tombe dei nostri antichi avi, perché niente nella vita si ottiene gratis, è tutto questo ha un nome: DIGNITATIS LIBERTAS, e grazie ancora."

Wise Templar 




I Tempari esistono ancora oggi, pronti a difendere i nostri valori contro la sanguinosa avanzata dell'Islam 
 http://www.fanwave.it/articoli/87-i-templari-sono-ancora-tra-noi-piu-forti-che-mai.html

IO TROVO VERGOGNOSO (di Oriana Fallaci)

Una grande giornalista, forse la più grande giornalista italiana, la prima donna inviata di guerra, un incarico allora riservato agli uomini. Aveva già capito che aria tirava in Medio Oriente e cosa costoro avevano in mente di fare.





«Apro la mia boccaccia e dico quello che mi pare»
   Oriana Fallaci (1929 - 2006)


SITO UFFICIALE : http://www.oriana-fallaci.com/

ilpost.it

La storia di Oriana Fallaci, quella vera

Oriana Fallaci si può definire così, a essere brevi: la giornalista italiana più conosciuta e apprezzata al mondo. Ebbe una vita straordinaria, di cui i più giovani sanno pochissimo e quel che sanno è per via delle cose che scrisse e disse negli ultimi dieci anni della sua vita – dall’11 settembre 2001 in poi – e che furono oggetto di critiche e polemiche, ma era stata moltissimo altro. Inventò un modo tutto suo di scrivere e intervistare, fu una delle prime donne a farsi strada in un mondo che fino ad allora alle donne sembrava precluso, ebbe posizioni radicali, fu molto poco politically correct e per questo divenne oggetto di attacchi e pesanti contestazioni (da cui seppe difendersi con energia). 

A un certo punto della sua vita diventò un personaggio, a prescindere dalle storie che raccontava e che aveva raccontato: fotografata e intervistata dai più importanti giornali internazionali, con i suoi occhialoni, le sigarette, i suoi cappelli e il suo pessimo carattere.
I libri e la Resistenza
«Sono nata a Firenze il 29/6/1929 da genitori fiorentini: Tosca ed Edoardo Fallaci. Da parte di mia madre, tuttavia, esiste un “filone” spagnolo: la sua bisnonna era di Barcellona. Da parte di mio padre, un “filone” romagnolo: sua madre era di Cesena. Connubio pessimo, com’è ovvio, nei risultati temperamentali. Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa». Così Oriana Fallaci raccontò la sua famiglia in “La vita di Oriana narrata da Oriana stessa per i lettori dell’Europeo”: un testo destinato, appunto, ai lettori della rivista con cui collaborava. La sua era una famiglia di antifascisti militanti. Il padre era iscritto al Partito socialista italiano (PSI) da quando aveva 17 anni:
«Ho avuto la fortuna di essere stata educata da due genitori molto coraggiosi. Coraggiosi fisicamente e moralmente. Mio padre, si sa, era un eroe della Resistenza e mia madre non gli è stata da meno».
Nonostante le condizioni della famiglia non fossero agiate, i pochi risparmi venivano investiti nell’acquisto di libri. Oriana Fallaci ebbe per tutta la vita una grande passione per i libri («Quando sono in una stanza senza libri mi sembra d’essere in una stanza vuota»); negli anni acquistò anche molti libri antichi creando una collezione che prima della sua morte donò alla Pontificia Università Lateranense di Roma.

Dopo la caduta del regime fascista, nel luglio del 1943, suo padre entrò nella Resistenza e portò con sé la figlia che aveva 14 anni. Con la sua bicicletta e il nome di battaglia “Emilia”, Oriana Fallaci affiancò il padre in varie operazioni, fece da staffetta consegnando ai compagni partigiani armi, giornali clandestini e messaggi e accompagnando i prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento italiani dopo l’8 settembre verso le linee degli Alleati. I grandi classici della letteratura pagati a rate dai genitori e la partecipazione alla Resistenza furono i due elementi fondamentali della sua formazione:
«La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura» (“Se il sole muore”, 2010).
Gli inizi

Nonostante la militanza nella Resistenza non perse nemmeno un anno di scuola, anzi: ne saltò uno, sostenne un esame per passare dalle magistrali al liceo classico e si diplomò con un anno di anticipo nel giugno del 1947. A settembre si iscrisse alla facoltà di Medicina e iniziò a lavorare per il quotidiano di Firenze Il Mattino dell’Italia centrale (il fratello del padre, Bruno Fallaci, era uno stimato giornalista e anche le due sorelle di Oriana, Neera e Paola, iniziarono a fare questo mestiere collaborando con Oggi e il Tempo). All’inizio Oriana Fallaci si occupò di cronaca nera. Poi lasciò l’università e iniziò a scrivere di cronaca giudiziaria e anche di argomenti di costume: è molto famoso un suo articolo del 7 dicembre del 1948 in cui descrisse le sfilate di Dior a Firenze.

Il suo obiettivo era diventare «scrittore» e il giornalismo per lei era inizialmente solo un modo per guadagnare dei soldi:
«Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore. Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: “Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?”» (Archivio privato Oriana Fallaci, Appunto dattiloscritto).
Nel 1951 un suo articolo fu pubblicato sul settimanale L’Europeo, uno dei più prestigiosi del tempo. Il pezzo si intitolava “Anche a Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini” e raccontava la storia di un cattolico comunista di Fiesole a cui erano stati negati i sacramenti e i cui compagni vestiti da prete avevano inscenato un funerale religioso. 

Negli anni Cinquanta lavorò per Epoca (diretto dallo zio) e scrisse per L’Europeo altri articoli trasferendosi a Roma (dal settimanale verrà poi assunta nella redazione di Milano continuando le collaborazioni fino al 1977). Come le altre sue colleghe si occupò di temi considerati adatti a delle giornaliste: costume e spettacolo. Intervistò gli attori stranieri che lavorano a Cinecittà e i grandi attori e registi del cinema italiano: Fellini, Mastroianni, Totò, Anna Magnani. Nel frattempo partecipò a diversi viaggi organizzati per la stampa nel mondo. Nel 1954 andò per esempio a Teheran e intervistò Soraya, la moglie dello Scià, e poi negli Stati Uniti: da quel viaggio nacque il reportage “Hollywood vista dal buco della serratura” che divenne anche il suo primo libro (“I sette peccati di Hollywood”).

A questa pubblicazione ne seguirono altre: “Il sesso inutile” (1961), nato da un reportage sulla condizione della donna in Oriente e Medio Oriente; “Penelope alla guerra”, il suo primo romanzo pubblicato nel 1962; “Gli antipatici” del 1963. Ebbero tutti un grande successo in Italia e vennero tradotti in diverse lingue. Oriana Fallaci poté a quel punto permettersi di comprare una grande casa in Toscana per i suoi genitori e di comprare per sé una casa a Manhattan, New York, dove si trasferì nel 1963. Diventata ormai famosa e riconosciuta, in quegli anni che cercò di occuparsi di cose che non fossero divi e mondanità: chiese a L’Europeo di poter andare in California e in Texas nelle basi della NASA per vedere da vicino come si preparavano gli astronauti e scrisse sull’argomento diversi articoli e due libri, anche questi di grande successo: “Se il sole muore” e “Quel giorno sulla Luna”.

Andare alla guerra
Il 1967 e il 1968 furono gli anni più importanti per la carriera di Oriana Fallaci. Chiese e ottenne di essere inviata in Vietnam e fu l’unica giornalista italiana presente al fronte. Tornò più volte fino alla fine del conflitto, nel 1975, raccontando la vita quotidiana a Saigon, i bombardamenti, gli interrogatori dei prigionieri, le rappresaglie e realizzando molte interviste esclusive e reportage comprati e tradotti da importanti giornali internazionali. La sua posizione fu critica sia nei confronti dei soldati americani e sudvietnamiti sia nei confronti dei vietcong. Dalla guerra in Vietnam nacque il libro “Niente e così sia” (1969). In Vietnam conobbe François Pelou, giornalista francese direttore dell’Agence France Presse di Saigon, che diventò per alcuni anni il suo compagno. Nel 1968 era a Città del Messico alla vigilia delle Olimpiadi e restò ferita gravemente da un colpo di pistola nella repressione di una manifestazione studentesca di protesta (la credettero morta, poi dall’obitorio la trasferirono in ospedale).

Tra gli anni Sessanta e Settanta Oriana Fallaci si affermò come grande giornalista politica: raccontò la rivolta di Detroit dopo l’uccisione di Martin Luther King, il conflitto arabo-palestinese, le guerriglie contro le dittature del Sudamerica, la morte di Bob Kennedy, i conflitti in Asia. Soprattutto riuscì a realizzare molte interviste a personaggi politici che nessuno era mai riuscito ad avvicinare: Ali Bhutto in Pakistan, Haile Selassie in Etiopia, Indira Gandhi in India, Golda Meir, prima donna premier di Israele, Reza Pahlavi, penultimo Scià di Persia, Yassir Arafat, storico leader palestinese, Henry Kissinger e molti e molte altre. Le interviste furono pubblicate su L’Europeo e anche sul Corriere della Sera, con cui aveva nel frattempo iniziato a collaborare.

La tecnica con cui Oriana Fallaci conduceva le interviste era per l’epoca molto innovativa e la resero nota e apprezzata in tutto il mondo. In molti l’hanno paragonata a quella di un vero e proprio interrogatorio; le domande venivano preparate e studiate a tavolino nei minimi dettagli, registrate, e poi scritte e riscritte più volte, smontate e poi rimontate. Erano lontane – e per questo criticate da alcuni – dal cosiddetto giornalismo oggettivo e sempre filtrate dalle proprie posizioni e ideologie («Per esser buona un’intervista deve infilarsi, affondarsi, nel cuore dell’intervistato», dirà nel 2004 in “Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse”). Ventisei di queste interviste furono raccolte nel 1974 in “Intervista con la storia”, edito da Rizzoli, diventato a quel punto il suo editore di riferimento.
Negli anni Settanta Oriana Fallaci pubblicò altri due libri: “Lettera a un bambino mai nato” (1975), proprio mentre in Italia si discuteva di legge sull’aborto, e “Un uomo” (1979). Entrambi parlavano di lei, dei suoi due aborti spontanei e del suo rapporto con Alexandros Panagulis, conosciuto come Alekos, uno dei leader della Resistenza greca alla dittatura dei Colonnelli che fu per per tre anni il suo compagno. 

Alekos era stato incarcerato nel 1968 dopo un attentato fallito a Papadòpoulos. Dopo la liberazione Oriana Fallaci lo incontrò, lo intervistò e se ne innamorò. Nel maggio del 1976 Alekos morì ad Atene in un incidente automobilistico le cui cause non furono chiarite: si pensò a un complotto, sul quale la Fallaci indagò per molto tempo. I libri nati in quegli anni furono tradotti e pubblicati in tutto il mondo.

Il libro successivo di Oriana Fallaci arrivò undici anni dopo: “Insciallah”, nel 1990. Fallaci tornò a occuparsi di guerre – soprattutto quella civile del Libano a partire dagli attentati di Beirut – ma anche di fondamentalismo islamico e delle storie dei soldati che componevano il contingente militare italiano. Nel frattempo, dopo la morte di Panagulis e della madre, aveva lasciato L’Europeo e era tornata a scrivere piuttosto raramente per riviste o quotidiani, continuando comunque a realizzare soprattutto interviste (a Khomeini, il leader religioso che aveva instaurato in Iran la Repubblica islamica: l’intervista durante la quale polemicamente si tolse il velo che le copriva la testa; a Muammar Gheddafi, dittatore della Libia; a Lech Walęsa agli inizi di Solidarność).

Gli ultimi anni
Nel 1992 Oriana Fallaci scoprì di avere il cancro e ne parlò in un’intervista alla RAI:
«Io non capisco questo pudore, questa avversione per la parola cancro. Non è neanche una malattia infettiva, non è neanche una malattia contagiosa. Bisogna fare come si fa qui in America, bisogna dirla questa parola. Serenamente, apertamente, disinvoltamente. Io-ho-il-cancro. Dirlo come si direbbe io ho l’epatite, io ho la polmonite, io ho una gamba rotta. Io ho fatto così, io faccio così e a far così mi sembra di esorcizzarlo».
Il suo rapporto con la malattia fu comunque piuttosto complicato (spesso vi faceva riferimento chiamandolo l'”Alieno”) soprattutto perché temeva le avrebbe impedito di finire il suo ultimo progetto editoriale: un grande romanzo storico che raccontasse la storia della sua famiglia dal Settecento al Novecento. Fallaci ci lavorò per più di quindici anni, facendo dettagliate e approfondite ricerche storiche. Non lo finì e venne pubblicato dopo la sua morte, avvenuta il 15 settembre del 2006, con il titolo “Un cappello pieno di ciliege” (2008).
Il lavoro di scrittura del romanzo familiare fu interrotto nel 2001. 

Dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York Oriana Fallaci scrisse un lungo articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 29 settembre, intitolato “La rabbia e l’orgoglio“, con cui accusò l’Occidente e l’Europa di non avere avuto abbastanza coraggio nei confronti dell’Islam. 

L’articolo era molto originale e politicamente molto violento, e generò intorno reazioni altrettanto violente e un grande dibattito: per il Corriere fu un successo editoriale notevolissimo. Per Fallaci fu un rientro nella discussione giornalistica e politica molto intenso, che implicò litigi e tensioni personali con molti e il ritorno sulla scena del suo leggendario pessimo carattere. Quel testo fu accolto da molti come uno sfogo razzista e poco lucido privo di capacità di analisi equilibrata, e da altri come la liberazione di pensieri semplici ma fondati e troppo trattenuti da retoriche di correttezza politica. Fu in ogni caso un prodotto giornalistico di straordinario impatto e successo, cosa che dovette riconoscere anche chi non ne condivise niente.

I successivi tre anni Fallaci li trascorse ad argomentare la sua posizione pubblicando una trilogia (“La rabbia e l’orgoglio”, “La forza della ragione”, “Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse”), schierandosi contro l’eutanasia sul Foglio in seguito alla vicenda di Terri Schiavo e sul Corriere della Sera contro il referendum per estendere la ricerca sulle cellule staminali.

Conclusa questa fase in cui si occupò molto di attualità, riprese la scrittura del romanzo familiare: ma solo per un anno. Nell’estate del 2006, gravemente malata, volle tornare a Firenze dove morì il 15 settembre. Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori accanto ai suoi genitori; sulla sua lapide c’è scritto, per sua volontà: «Oriana Fallaci – Scrittore». L’ultima intervista la dette al New Yorker il 30 maggio del 2006 in un lungo articolo intitolato “The Agitator“: parlò della sua vita, attaccò di nuovo l’Islam, criticò sia Berlusconi che Prodi e concluse con una conferma alla sua lunga carriera: «Apro la mia boccaccia. E dico quello che mi pare».

sabato 14 gennaio 2017

Le 5 torture più sadiche del Medioevo

Il medioevo non fu di certo un bel periodo storico da vivere. La gente era povera e costretta a subire i voleri dei ricchi proprietari terrieri. La violazione di una legge ( anche morale ), comportava punizioni dure che mettevano in pericolo la propria stessa vita. Ecco a voi le 5 torture più orribili dell'età medievale



I 5 Boss MAFIOSI più POTENTI della storia

mercoledì 11 gennaio 2017

Non chiamate kamikaze quegli assassini dell’Isis. Nei giapponesi c’era onore…

I terroristi islamici kamikaze? Macchè! I kamikaze giapponesi difendevano la patria e colpivano obbiettivi militari in una guerra dichiarata, non facendosi esplodere tra i civili ma contro le navi da guerra. Musiche di Morricone nel primo video. 
Secondo video umoristico con Fantozzi.




secoloditalia.it

Non chiamate kamikaze quegli assassini dell’Isis. Nei giapponesi c’era onore…

di Antonio Pannullo

Sono diversi anni che i media italiani, tv compresa, definiscono i terroristi suicidi islamici kamikaze, per quanto la scelta sia totalmente inappropriata e denoti una certa ignoranza storica. Comprendiamo le ragioni di tale scelta: kamikaze è più corto di terroristi suicidi, anche se non tanto, la parola è entrata nell’immaginario collettivo occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, e qualsiasi persona che faceva un atto suicida, o comunque dissennato, anche in campo sportivo, veniva definito kamikaze

Ma ci sono altre ragioni per cui gli annunciatori tv e i colleghi della carta stampata, ormai parlano solo di kamikaze per definire i fondamentalisti che si fanno saltare in aria in mezzo a persone innocenti. Una è la pigrizia mentale di trovare un altro sinonimo, magari più corretto, l’altra è certamente – almeno per qualcuno – quella di voler accostare gli aviatori giapponesi che difendevano la loro patria colpendo solo obiettivi bellici, ai terroristi assassini che insanguinano le nostre città portando la morte tra donne e bambini civili. Insomma, si vuole accostare il soldato kamikaze giapponese al terrorista islamico. 

Come dire: anche loro erano nemici dei buoni americani che oggi combattono l’Isis. E poi si dimenticano di Hiroshima e Nagasaki. Ma questo è un altro discorso: la parola è troppo radicata nell’accidioso linguaggio giornalistico italiano per sperare che questo appello abbia un seguito, ma è nostro dovere ripeterlo con grande forza e instancabilmente: per favore, non chiamiamoli kamikaze: i terroristi fondamentalisti che negli ultimi anni – e ancora oggi – si fanno esplodere su autobus, fast food, piazze, grandi magazzini, strade, aeroporti, metropolitane, insomma nei luoghi frequentati da civili, non hanno nulla dei latori del “vento divino” ( questo significa la parola kamikaze) che settant’anni fa si sacrificarono colpendo obiettivi militari nemici che minacciavano la loro nazione e le loro famiglie.

In comune hanno soltanto il suicidio e la fierezza delle loro famiglie per il gesto, anche se neanche tutte oggi condividono il martirio di un familiare. Ma lo scopo era profondamente diverso. In Giappone oggi la parola kamikaze indica solamente un certo tifone che nel Medio Evo salvò il Paese dall’invasione dei mongoli di Kublai Khan. Per indicare i giovani patrioti che si sacrificarono si usa la parola Tokkotai, “unità di attacco speciale”. Che poi non furono solo i famosissimi “Zero”, i caccia nipponici carichi di esplosivo che si abbattevano sulle navi americane, no, ci furono anche delle meno conosciute imbarcazioni che – parimenti cariche di esplosivo – si lanciavano sulla flotta alleata. Come è noto, la pratica kamikaze non cambiò le sorti della guerra, ma colpì profondamente l’immaginario collettivo mondiale, sensibile al sentimento di totale abnegazione che questi giovani a volte neanche ventenni dimostrarono.

 

Non chiamateli kamikaze: quelli non erano terroristi

Il 21 ottobre del 1944, nel pieno della battaglia di Leyte, nelle Filippine, ci fu il primo attacco kamikaze di aviatori giapponesi che sacrificarono la loro vita per «l’Imperatore e l’Impero». Appena quattro giorni dopo, il 25 ottobre, nel golfo di Leyte ci fu la prima missione senza ritorno della “Kamikaze special attack force”, l’unità specializzata che fu emulata numerose volte nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale. Dopo la battaglia di Midway nel 1942, persa dalla Marina Imperiale giapponese, gli alleati iniziarono un’inesorabile avanzata verso le isole nipponiche con battaglie sanguinose combattute isola per isola. Due anni dopo, nel 1944, apparve chiaro che la potenza economica e industriale degli Stati Uniti stava volgendo le fasi della guerra a favore degli alleati: i caccia bombardieri erano migliori, non avevano problemi di benzina né di munizioni, e i piloti erano sempre più numerosi. E soprattutto gli americani avevano aerei in grado di colpire direttamente il Giappone partendo dal territorio statunitense (i B-29, le cosiddette fortezze volanti), mezzi di cui Tokyo non disponeva. Nell’ottobre di quell’anno c’erano solo 40 aerei giapponesi a fronteggiare la poderosa offensiva alleata. 

Fu allora, secondo la storia, che il comandante della prima flotta aerea Takijiro Onishi, in un briefing militare, pronunciò la frase: «Non penso che ci sia un’altra maniera di eseguire l’operazione che mettere una bomba da 250 chili su uno Zero e farlo sbattere contro una portaerei per metterla fuori combattimento per una settimana». Va appena ricordato che a quei tempi non c’erano velivoli, né mezzi radiocomandati o droni o nulla del genere: se si voleva fare qualcosa, bisognava farlo personalmente. E poiché i piloti veterani erano necessari per difendere in futuro il suolo nipponico, fu chiesto a degli studenti abili al volo la disponibilità per queste missioni suicide. Ebbene, tutti gli studenti indistintamente si offrirono e il tenente Yukio Seki, primo comandante della unità di attacco speciale disse commosso al suo superiore: «La prego di lasciarmelo fare». Cultura, storia e mentalità profondamente diverse dalle nostre, visioni e religioni diverse. Non a caso quando il Giappone si arrese ci furono in tutto il Paese migliaia di suicidi rituali, perché la resa non è contemplata nella mentalità giapponese. Comunque sia, nacque proprio settant’anni fa il primo reparto kamikaze, composto da 24 piloti, tutti intorno ai vent’anni. 

L’Unità d’attacco speciale Tokkoutai era a sua volta divisa in altre quattro unità: Unità Shikishima (Isola bella), Unità Yamato (Razza giapponese), Unità Asahi (Sol levante) e Unità Yama-zakura (Fiori di ciliegio selvatico di montagna). I nomi furono presi da un poema patriottico giapponese del XVIII secolo. Il primo attacco kamikaze in assoluto fu effettuato il 21 ottobre da un pilota mai identificato contro l’ammiraglia della Marina Reale australiana, l’”Australia”: la bomba non esplose ma cifurono 30 morti tra l’equipaggio. Ci furono, fino al 1945, almeno duemila attacchi kamikaze, e i volontari erano sempre più numerosi degli aerei disponibili: addirittura negli ultimi mesi i giapponesi concepirono un aereo senza dispositivi di atterraggio… Il culmine dell’attività kamikaze fu raggiunto il 6 aprile 1945, quando i giapponesi lanciarono l’operazione “Crisantemi galleggianti” condotta da centinaia di piloti suicidi. 

Alla fine della guerra erano morti quasi 4000 giovani kamikaze, che avevano affondato un’ottantina di navi e danneggiato circa 200, per un totale di 5000 vittime e altrettanti feriti. Negli anni successivi, grazie anche a Hollywood, si è appreso che c’era un cerimoniale sacro che accompagnava i giovani prima della loro missione: dall’utilizzo della celebre bandana bianca con dei simboli sacri chiamata hachimaki, al fatto che passavano in volo davanti la montagna Satsuma Fuji, e che salutandola essi salutavano il loro Paese e le loro famiglie. Testimoni dell’epoca sostengono anche che dagli aerei lanciassero fiordalisi. Ma l’esito della guerra non mutò. Alla toccante e tragica vicenda dei kamikaze sono stati dedicati film, libri, opere d’arte, canzoni, poesie. Il cantautore Skoll ha addirittura dedicato loro un’opera rock, “Sole e Acciaio”. E la loro memoria sopravvive ancora oggi, seppure in un’accezione completamente diversa da quella che loro vollero interpretare: i kamikaze odierni sono lontanissimi dai principi cardine della vita del samurai e del suo codice, il Bushido: lealtà e onore fino alla morte.


venerdì 6 gennaio 2017

Stato islamico (ISIS) come il Nazismo ?






huffingtonpost.it

Il paragone improponibile tra lo Stato islamico e il Terzo Reich

Nicola Lofoco

Se la condanna unanime della comunità internazionale nei confronti dello "Stato islamico", chiamato ormai da tutti Isis, è un coro che canta all'unisono, non lo è invece indubbiamente nella definizione di una exit strategydella crisi siriana. Nonostante la risoluzione di pace varata da poco dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che dovrebbe servire per traghettare la nazione a nuove elezioni (dove però non si è parlato in alcun modo del futuro che attende il regime di Bashar Al Assad) gli interessi internazionali sul futuro della terra di Damasco restano troppo divergenti, soprattutto quelli tra Russia, Iran, Stati Uniti e Paesi limitrofi come Turchia e Arabia Saudita.

E non dimentichiamo anche i territori occupati dall'Isis in Iraq, letteralmente gonfi di petrolio che fanno gola come un gustoso barattolo di marmellata e su cui non sarà facile attenuare gli interessi stranieri anche sul futuro di tutti gli iracheni. 

Ma accanto a tutto questo vi è stato chi in maniera ricorrente ha paragonato la nascita dell' Isis al Nazismo, invocando contro di esso un intervento armato internazionale, come avvenne durante il secondo conflitto bellico mondiale che rase al suolo non solo il regime Nazista presente in Germania ma anche le folli ambizioni di dominio millenarie del Terzo Reich. Una nuova guerra globale contro il terrore, compreso un intervento di truppe via terra, da intraprendere con il sostegno delle comunità internazionale e che rimpiazzerebbe i soli raid aerei russi e francesi compiuti sino ad ora (da molti ritenuti totalmente effimeri ed inefficaci).

Il leitmotiv ricorrente è quasi sempre lo stesso, quello di affermare che se non si fosse intervenuti militarmente in tutta Europa avremmo avuto ancora oggi il Nazismo, con i suoi crimini, le sue nefandezze ed i suoi lager. Un accostamento che può sembrare chiaro e lineare, soprattutto se teniamo conto che sia i nazisti quanto i fondamentalisti islamici hanno provocato morte e distruzione dimostrando un'immane ferocia nella loro insana e squilibrata ideologia.

Se riflettiamo bene, però, ci possiamo accorgere di come l'Isis e la Germania nazista siano due fenomeni totalmente diversi, frutto di una nascita e di un'evoluzione che non sono affatto paragonabili tra loro. Non solo per la lunghissima distanza temporale intercorsa tra entrambi ( il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, fondato nel 1920 e salito al potere nel 1933, l'Isis nato sotto altro nome nel 1999 e giunto agli albori della sua dominazione nel 2014) ma anche per dei fatti concreti ed oggettivi che possiamo qui elencare:

1) Innanzitutto la presenza dei famigerati Foreign Fighters. L'Isis è imbottita sino collo di combattenti stranieri, che provengono da svariate zone del pianeta e che hanno visto nello Stato islamico il proprio riferimento politico-religioso. Il nazismo fu invece un fenomeno prettamente tedesco. Nella Germania nazista non vi erano combattenti stranieri, ma sia l'esercito quanto i gangli vitali delle Stato erano composti da soli tedeschi.

2) Per la sua espansione il Nazismo non ha avuto bisogno di scatenare alcuna guerra o occupazione. L'ascesa al potere di Adolf Hitler, culminata il 30 Gennaio 1933 con la sua nomina a cancelliere del Reich (un anno dopo divenne il Fuhrer, il capo unico ed indiscusso), ha sigillato l'ascesa al potere nazista in tutta la Germania senza sparare neanche un colpo. Su come sia stato possibile, lo racconta benissimo William Sheridan Allen nel suo saggio "Come si diventa nazisti". L'Isis ha invece conquistato il territorio che ora occupa con la violenza e spargendo terrore, utilizzando la forza delle armi.

3) Il Nazismo è stato un fenomeno prettamente tedesco e non vi sono state, come nel caso dell'Isis, ingerenze straniere nella sua formazione, nella sua organizzazione e, soprattutto, nel suo finanziamento economico e militare.

4) La Germania, dopo la fine della tirannia del Terzo Reich, scelse la via della democrazia rappresentativa, in quanto essa si trovata in Europa,dove già da molto tempo l'influenza dei valori democratici era già viva in Paesi importanti ed influenti come la Francia e la Gran Bretagna. Il futuro tedesco venne quindi deciso dai valori politici strettamente europei (cosa che del resto accadde anche in Italia e successivamente negli anni a venire in Spagna e Portogallo quando uscirono anch'esse da due dittature). 

L'Isis, invece, è presente nel cuore del Medio Oriente, dove i valori della democrazia rappresentativa sono inesistenti. Per questo la liberazione dei territori occupati dai fondamentalisti islamici non significherebbe in alcun modo traghettarli verso i nostri tanto decantati valori democratici. 

Oltre a questo, è necessario sottolineare come i nazisti si erano resi protagonisti di un genocidio per motivi strettamente razziali mentre nello Stato islamico i massacri e le uccisioni di massa seguono una direttrice meramente religiosa. È vero che molto spesso accostare i due fenomeni ed identificarli a causa dei loro crimini e delle loro brutalità è molto facile e spontaneo.

Ma spesso non vengono tenute nella debita considerazione le differenzi culturali, sociali e politiche tra quello che era stato il regime Nazista e la natura basata sul radicalismo islamico dell'Isis, che sono differenze molto sostanziali tra di loro. 

Per questo un massiccio intervento militare in Medio Oriente non significherebbe in alcun modo restituire alla popolazione vessata sino ad oggi dall'occupazione dei fondamentalisti islamici un futuro di libertà e partecipazione democratica. 

La soluzione potrebbe solo passare tra un obbligato compromesso in seno alla comunità internazionale, che riesca a disegnare un serio progetto politico per la ricostruzione dell' intera regione (cosa che non è stata fatta, ad esempio, per la Libia).
Ma forse sarebbe meglio capire bene tutto questo in fretta, prima di correre il rischio di impantanarsi in una guerra che provocherebbe solo l'ennesimo ed inutile olocausto di sangue e morte da ricordare a caratteri cubitali nei libri di storia.

domenica 1 gennaio 2017

BUON ANNO DAI BEATLES : Twist And Shout

it.wikipedia.org

Una pazza giornata di vacanza

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
« La vita scappa via in fretta, se uno non si ferma e non si guarda intorno, rischia di sprecarla »
(Ferris Bueller / Matthew Broderick)
Una pazza giornata di vacanza (Ferris Bueller's Day Off) è un film del 1986 scritto e diretto da John Hughes. La pellicola, distribuita dalla Paramount Pictures a partire dal 13 giugno 1986, è una commedia giovanile interpretata da Matthew Broderick, Jeffrey Jones, Alan Ruck, Mia Sara e Jennifer Grey. Ferris all'interno della pellicola rompe spesso la quarta parete, comunicando direttamente con il pubblico.
Nel 1990 NBC ha prodotto Ferris Bueller, serie televisiva basata sul film, con protagonista Charlie Shatter, Richard Riehle e Jennifer Aniston.
Nel 2014 il film è stato selezionato per la preservazione nel National Film Registry, dove vengono custoditi i film considerati: "culturalmente, storicamente o esteticamente significativi".[1]

Trama

Il giovane Ferris finge di stare male per poter saltare la scuola. Ferris rompe la quarta parete e dà al pubblico consigli su come saltare la scuola. Sua sorella maggiore Jeannie capisce che il fratello in realtà sta bene, così, anche se leggermente irritata, decide di andare a scuola senza il fratello. Appena viene risultata l'assenza, il preside della scuola Edward Rooney sospetta che Ferris abbia marinato la scuola e cerca di coglierlo sul fatto. 

Tuttavia, Ferris utilizza un computer per modificare le assenze della scuola per indicare che era assente solamente 2 giorni invece di 9. Ferris convince il suo amico Cameron, anch'egli assente, a riferire al preside nei panni del padre di Sloane, la ragazza di Ferris, che la nonna di quest'ultima è morta. Nonostante le perplessità da parte del preside, i due riescono ad ingannarlo e lui la lascia andare.

Ferris prende dunque in prestito dal padre di Cameron una Ferrari 250 GT California Spider del 1961 (contro il parere dello stesso Cameron), ed insieme a quest'ultimo ed alla sua ragazza Sloane, guida verso la città. Dopo aver lasciato l'auto a due parcheggiatori poco raccomandabili, il trio fa visita all'Art Institute of Chicago, la Willis Tower, il Chicago Mercantile Exchange e il Wrigley Field

Successivamente si dirigono in un ristorante francese dove Ferris finge di essere Abe Froman, il "Re della salciccia di Chicago", per pranzare. I tre dovranno però poi sfilarsela poiché nello stesso ristorante era presente anche il padre di Ferris. Nel frattempo, dopo non essere riuscito a trovare Ferris ed i suoi amici nel locale, Rooney visita la residenza dei Bueller e, dopo una serie di momenti imbarazzanti, viene attaccato dal cane di famiglia. Jeannie, dopo essere tornata a casa ed aver scoperto lo stratagemma di suo fratello, incontra Rooney in casa. 

 Dallo spavento lei lo ferisce con un calcio e chiama la polizia. Rooney riesce a filarsela, così la polizia arresta Jeannie a causa del falso allarme e la porta in commissariato. Lì Jeannie incontra un giovane delinquente, che le consiglia di non prestare troppa attenzione a quello che fa o non faccia il fratello.

Dopo una corsa in taxi, dove Cameron afferma di non aver visto nulla di buono quel giorno, Ferris si esibisce ad una parata cantando in playback Danke Schoen nella versione di Wayne Newton e Twist and Shout nella versione dei Beatles, mentre la folla entusiasta si unisce a lui con canti e balli.