Una grande giornalista, forse la più
grande giornalista italiana, la prima donna inviata di guerra, un incarico allora riservato agli uomini. Aveva già capito che aria tirava in Medio Oriente e cosa costoro avevano in mente di fare.
«Apro la
mia boccaccia e dico quello che mi pare» Oriana Fallaci (1929 - 2006)
Oriana Fallaci si può definire così, a essere brevi: la
giornalista italiana più conosciuta e apprezzata al mondo. Ebbe una vita
straordinaria, di cui i più giovani sanno pochissimo e quel che sanno è
per via delle cose che scrisse e disse negli ultimi dieci anni della
sua vita – dall’11 settembre 2001 in poi – e che furono oggetto di
critiche e polemiche, ma era stata moltissimo altro. Inventò un modo
tutto suo di scrivere e intervistare, fu una delle prime donne a farsi
strada in un mondo che fino ad allora alle donne sembrava precluso, ebbe
posizioni radicali, fu molto poco politically correct e per questo
divenne oggetto di attacchi e pesanti contestazioni (da cui seppe
difendersi con energia).
A un certo punto della sua vita diventò un
personaggio, a prescindere dalle storie che raccontava e che aveva
raccontato: fotografata e intervistata dai più importanti giornali
internazionali, con i suoi occhialoni, le sigarette, i suoi cappelli e
il suo pessimo carattere.
I libri e la Resistenza «Sono nata a Firenze il 29/6/1929 da genitori fiorentini: Tosca ed
Edoardo Fallaci. Da parte di mia madre, tuttavia, esiste un “filone”
spagnolo: la sua bisnonna era di Barcellona. Da parte di mio padre, un
“filone” romagnolo: sua madre era di Cesena. Connubio pessimo, com’è
ovvio, nei risultati temperamentali. Mi ritengo comunque una fiorentina
pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è
la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a
quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la
stessa cosa». Così Oriana Fallaci raccontò la sua famiglia in “La vita
di Oriana narrata da Oriana stessa per i lettori dell’Europeo”: un testo
destinato, appunto, ai lettori della rivista con cui collaborava. La
sua era una famiglia di antifascisti militanti. Il padre era iscritto al
Partito socialista italiano (PSI) da quando aveva 17 anni:
«Ho avuto la fortuna di essere stata educata da due
genitori molto coraggiosi. Coraggiosi fisicamente e moralmente. Mio
padre, si sa, era un eroe della Resistenza e mia madre non gli è stata
da meno».
Nonostante le condizioni della famiglia non fossero agiate, i pochi
risparmi venivano investiti nell’acquisto di libri. Oriana Fallaci ebbe
per tutta la vita una grande passione per i libri («Quando sono in una
stanza senza libri mi sembra d’essere in una stanza vuota»); negli anni
acquistò anche molti libri antichi creando una collezione che prima
della sua morte donò alla Pontificia Università Lateranense di Roma.
Dopo la caduta del regime fascista, nel luglio del 1943, suo padre
entrò nella Resistenza e portò con sé la figlia che aveva 14 anni. Con
la sua bicicletta e il nome di battaglia “Emilia”, Oriana Fallaci
affiancò il padre in varie operazioni, fece da staffetta consegnando ai
compagni partigiani armi, giornali clandestini e messaggi e
accompagnando i prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di
concentramento italiani dopo l’8 settembre verso le linee degli Alleati.
I grandi classici della letteratura pagati a rate dai genitori e la
partecipazione alla Resistenza furono i due elementi fondamentali della
sua formazione:
«La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il
privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli
eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con
loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro
che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia
vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944,
l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la
mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la
mia paura per la paura» (“Se il sole muore”, 2010).
Gli inizi Nonostante la militanza nella Resistenza non perse nemmeno un anno di
scuola, anzi: ne saltò uno, sostenne un esame per passare dalle
magistrali al liceo classico e si diplomò con un anno di anticipo nel
giugno del 1947. A settembre si iscrisse alla facoltà di Medicina e
iniziò a lavorare per il quotidiano di Firenze Il Mattino dell’Italia centrale
(il fratello del padre, Bruno Fallaci, era uno stimato giornalista e
anche le due sorelle di Oriana, Neera e Paola, iniziarono a fare questo
mestiere collaborando con Oggi e il Tempo). All’inizio
Oriana Fallaci si occupò di cronaca nera. Poi lasciò l’università e
iniziò a scrivere di cronaca giudiziaria e anche di argomenti di
costume: è molto famoso un suo articolo del 7 dicembre del 1948 in cui descrisse le sfilate di Dior a Firenze.
Il suo obiettivo era diventare «scrittore» e il giornalismo per lei era inizialmente solo un modo per guadagnare dei soldi:
«Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo
scrittore. Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo
nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi
sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore,
e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi,
da un discorso che sentivo fare a casa: “Eh! Scrittore, scrittore! Lo
sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E
lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e
arrivare a vendere un libro?”» (Archivio privato Oriana Fallaci, Appunto
dattiloscritto).
Nel 1951 un suo articolo fu pubblicato sul settimanale L’Europeo,
uno dei più prestigiosi del tempo. Il pezzo si intitolava “Anche a
Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini” e raccontava la storia di un
cattolico comunista di Fiesole a cui erano stati negati i sacramenti e i
cui compagni vestiti da prete avevano inscenato un funerale religioso.
Negli anni Cinquanta lavorò per Epoca (diretto dallo zio) e scrisse per L’Europeo
altri articoli trasferendosi a Roma (dal settimanale verrà poi assunta
nella redazione di Milano continuando le collaborazioni fino al 1977).
Come le altre sue colleghe si occupò di temi considerati adatti a delle
giornaliste: costume e spettacolo. Intervistò gli attori stranieri che
lavorano a Cinecittà e i grandi attori e registi del cinema italiano:
Fellini, Mastroianni, Totò, Anna Magnani. Nel frattempo partecipò a
diversi viaggi organizzati per la stampa nel mondo. Nel 1954 andò per
esempio a Teheran e intervistò Soraya, la moglie dello Scià, e poi negli
Stati Uniti: da quel viaggio nacque il reportage “Hollywood vista dal
buco della serratura” che divenne anche il suo primo libro (“I sette
peccati di Hollywood”).
A questa pubblicazione ne seguirono altre: “Il sesso inutile” (1961),
nato da un reportage sulla condizione della donna in Oriente e Medio
Oriente; “Penelope alla guerra”, il suo primo romanzo pubblicato nel
1962; “Gli antipatici” del 1963. Ebbero tutti un grande successo in
Italia e vennero tradotti in diverse lingue. Oriana Fallaci poté a quel
punto permettersi di comprare una grande casa in Toscana per i suoi
genitori e di comprare per sé una casa a Manhattan, New York, dove si
trasferì nel 1963. Diventata ormai famosa e riconosciuta, in quegli anni
che cercò di occuparsi di cose che non fossero divi e mondanità: chiese
a L’Europeo di poter andare in California e in Texas nelle
basi della NASA per vedere da vicino come si preparavano gli astronauti e
scrisse sull’argomento diversi articoli e due libri, anche questi di
grande successo: “Se il sole muore” e “Quel giorno sulla Luna”.
Andare alla guerra Il 1967 e il 1968 furono gli anni più importanti per la carriera di
Oriana Fallaci. Chiese e ottenne di essere inviata in Vietnam e fu
l’unica giornalista italiana presente al fronte. Tornò più volte fino
alla fine del conflitto, nel 1975, raccontando la vita quotidiana a
Saigon, i bombardamenti, gli interrogatori dei prigionieri, le
rappresaglie e realizzando molte interviste esclusive e reportage
comprati e tradotti da importanti giornali internazionali. La sua
posizione fu critica sia nei confronti dei soldati americani e
sudvietnamiti sia nei confronti dei vietcong. Dalla guerra in Vietnam
nacque il libro “Niente e così sia” (1969). In Vietnam conobbe François
Pelou, giornalista francese direttore dell’Agence France Presse
di Saigon, che diventò per alcuni anni il suo compagno. Nel 1968 era a
Città del Messico alla vigilia delle Olimpiadi e restò ferita gravemente
da un colpo di pistola nella repressione di una manifestazione
studentesca di protesta (la credettero morta, poi dall’obitorio la
trasferirono in ospedale).
Tra gli anni Sessanta e Settanta Oriana Fallaci si affermò come grande giornalista politica:
raccontò la rivolta di Detroit dopo l’uccisione di Martin Luther King,
il conflitto arabo-palestinese, le guerriglie contro le dittature del
Sudamerica, la morte di Bob Kennedy, i conflitti in Asia. Soprattutto
riuscì a realizzare molte interviste a personaggi politici che nessuno
era mai riuscito ad avvicinare: Ali Bhutto in Pakistan, Haile Selassie
in Etiopia, Indira Gandhi in India, Golda Meir, prima donna premier di
Israele, Reza Pahlavi, penultimo Scià di Persia, Yassir Arafat, storico
leader palestinese, Henry Kissinger e molti e molte altre. Le interviste
furono pubblicate su L’Europeo e anche sul Corriere della Sera, con cui aveva nel frattempo iniziato a collaborare.
La tecnica con cui Oriana Fallaci conduceva le interviste era per
l’epoca molto innovativa e la resero nota e apprezzata in tutto il
mondo. In molti l’hanno paragonata a quella di un vero e proprio
interrogatorio; le domande venivano preparate e studiate a tavolino nei
minimi dettagli, registrate, e poi scritte e riscritte più volte,
smontate e poi rimontate. Erano lontane – e per questo criticate da
alcuni – dal cosiddetto giornalismo oggettivo e sempre filtrate dalle
proprie posizioni e ideologie («Per esser buona un’intervista deve
infilarsi, affondarsi, nel cuore dell’intervistato», dirà nel 2004 in
“Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse”). Ventisei di
queste interviste furono raccolte nel 1974 in “Intervista con la
storia”, edito da Rizzoli, diventato a quel punto il suo editore di
riferimento. Negli anni Settanta Oriana Fallaci pubblicò altri due libri: “Lettera
a un bambino mai nato” (1975), proprio mentre in Italia si discuteva di
legge sull’aborto, e “Un uomo” (1979). Entrambi parlavano di lei, dei
suoi due aborti spontanei e del suo rapporto con Alexandros Panagulis,
conosciuto come Alekos, uno dei leader della Resistenza greca alla
dittatura dei Colonnelli che fu per per tre anni il suo compagno.
Alekos
era stato incarcerato nel 1968 dopo un attentato fallito a
Papadòpoulos. Dopo la liberazione Oriana Fallaci lo incontrò, lo
intervistò e se ne innamorò. Nel maggio del 1976 Alekos morì ad Atene in
un incidente automobilistico le cui cause non furono chiarite: si pensò
a un complotto, sul quale la Fallaci indagò per molto tempo. I libri
nati in quegli anni furono tradotti e pubblicati in tutto il mondo.
Il libro successivo di Oriana Fallaci arrivò undici anni dopo:
“Insciallah”, nel 1990. Fallaci tornò a occuparsi di guerre –
soprattutto quella civile del Libano a partire dagli attentati di Beirut
– ma anche di fondamentalismo islamico e delle storie dei soldati che
componevano il contingente militare italiano. Nel frattempo, dopo la
morte di Panagulis e della madre, aveva lasciato L’Europeo e
era tornata a scrivere piuttosto raramente per riviste o quotidiani,
continuando comunque a realizzare soprattutto interviste (a Khomeini, il
leader religioso che aveva instaurato in Iran la Repubblica islamica:
l’intervista durante la quale polemicamente si tolse il velo che le
copriva la testa; a Muammar Gheddafi, dittatore della Libia; a Lech
Walęsa agli inizi di Solidarność).
Gli ultimi anni Nel 1992 Oriana Fallaci scoprì di avere il cancro e ne parlò in un’intervista alla RAI:
«Io non capisco questo pudore, questa avversione per la
parola cancro. Non è neanche una malattia infettiva, non è neanche una
malattia contagiosa. Bisogna fare come si fa qui in America, bisogna
dirla questa parola. Serenamente, apertamente, disinvoltamente.
Io-ho-il-cancro. Dirlo come si direbbe io ho l’epatite, io ho la
polmonite, io ho una gamba rotta. Io ho fatto così, io faccio così e a
far così mi sembra di esorcizzarlo».
Il suo rapporto con la malattia fu comunque piuttosto complicato
(spesso vi faceva riferimento chiamandolo l'”Alieno”) soprattutto perché
temeva le avrebbe impedito di finire il suo ultimo progetto editoriale:
un grande romanzo storico che raccontasse la storia della sua famiglia
dal Settecento al Novecento. Fallaci ci lavorò per più di quindici anni,
facendo dettagliate e approfondite ricerche storiche. Non lo finì e
venne pubblicato dopo la sua morte, avvenuta il 15 settembre del 2006,
con il titolo “Un cappello pieno di ciliege” (2008). Il lavoro di scrittura del romanzo familiare fu interrotto nel 2001.
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York Oriana Fallaci scrisse
un lungo articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 29 settembre, intitolato “La rabbia e l’orgoglio“,
con cui accusò l’Occidente e l’Europa di non avere avuto abbastanza
coraggio nei confronti dell’Islam.
L’articolo era molto originale e
politicamente molto violento, e generò intorno reazioni altrettanto
violente e un grande dibattito: per il Corriere fu un successo
editoriale notevolissimo. Per Fallaci fu un rientro nella discussione
giornalistica e politica molto intenso, che implicò litigi e tensioni
personali con molti e il ritorno sulla scena del suo leggendario pessimo
carattere. Quel testo fu accolto da molti come uno sfogo razzista e
poco lucido privo di capacità di analisi equilibrata, e da altri come la
liberazione di pensieri semplici ma fondati e troppo trattenuti da
retoriche di correttezza politica. Fu in ogni caso un prodotto
giornalistico di straordinario impatto e successo, cosa che dovette
riconoscere anche chi non ne condivise niente.
I successivi tre anni Fallaci li trascorse ad argomentare la sua
posizione pubblicando una trilogia (“La rabbia e l’orgoglio”, “La forza
della ragione”, “Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse”),
schierandosi contro l’eutanasia sul Foglio in seguito alla vicenda di Terri Schiavo e sul Corriere della Sera contro il referendum per estendere la ricerca sulle cellule staminali.
Conclusa questa fase in cui si occupò molto di attualità, riprese la
scrittura del romanzo familiare: ma solo per un anno. Nell’estate del
2006, gravemente malata, volle tornare a Firenze dove morì il 15
settembre. Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori accanto ai
suoi genitori; sulla sua lapide c’è scritto, per sua volontà: «Oriana
Fallaci – Scrittore». L’ultima intervista la dette al New Yorker il 30 maggio del 2006 in un lungo articolo intitolato “The Agitator“:
parlò della sua vita, attaccò di nuovo l’Islam, criticò sia Berlusconi
che Prodi e concluse con una conferma alla sua lunga carriera: «Apro la
mia boccaccia. E dico quello che mi pare».
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