Primo Levi[n 1] (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987) è stato uno scrittore e chimico italiano, autore di saggi, romanzi, racconti, memorie e poesie.
Partigiano antifascista, il 13 dicembre 1943 fu arrestato dai fascisti in Valle d'Aosta, venendo prima inviato in un campo di raccolta a Fossoli e, nel gennaio 1944, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz in quanto ebreo. Scampato al lager, tornò in Italia, dove si dedicò con impegno al compito di raccontare le atrocità viste e subite.
La sua opera più famosa, di genere memorialistico, è Se questo è un uomo:
racconta le sue esperienze nel campo di concentramento nazista ed è
considerato un classico della letteratura mondiale. Laureato in chimica, in molte sue opere appaiono riferimenti diretti e indiretti a questa branca della scienza[4].

Famiglia Levi, gennaio 1927
Primo Levi nacque a Torino - nella casa dove abiterà per tutta la vita - il 31 luglio 1919, figlio primogenito di Cesare Levi (1878-1942) ed Ester Luzzati (1895-1991)[5],
sposatisi nel 1917 e appartenenti a famiglie di origini ebraiche. I
suoi antenati erano ebrei piemontesi provenienti dalla Spagna e dalla
Provenza[6]; il nonno paterno era un ingegnere civile, il nonno materno un mercante di stoffe. Il padre Cesare, ebreo praticante[7],
laureato in ingegneria elettronica (nel 1901) e dipendente della
società Ganz, era spesso lontano dalla famiglia per ragioni di lavoro,
principalmente all'estero (in particolare in Ungheria). Nondimeno
esercitò sul figlio una profonda influenza, trasmettendogli gli
interessi per la scienza e la letteratura (Levi raccontò che il padre
gli aveva comprato un microscopio e regalato molti libri) che diverranno
tratti salienti della personalità di Primo Levi, nonché elementi della
sua futura produzione letteraria. Nel 1921 nacque la sorella Anna Maria,
cui Levi restò molto legato per tutta la vita[8].

Primo Levi assieme alla sorella Anna Maria nel 1928 a Torre Pellice
Dopo le scuole elementari ricevette lezioni private per un anno; era di salute cagionevole. Nel 1930 si iscrisse al Ginnasio D'Azeglio di Torino e successivamente, tra il 1934 e il 1935, frequentò il liceo,
noto per aver annoverato negli anni precedenti tra i propri insegnanti e
studenti diverse figure distintesi per la loro opposizione al regime
fascista, tra cui Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Norberto Bobbio, Zino Zini e Massimo Mila.
Levi era uno studente con un buon rendimento, timido e diligente, molto
interessato a biologia e chimica, meno a storia e italiano; manifestò
insofferenza per l'astratto sapere letterario che gli veniva insegnato.
Strinse amicizia con alcuni compagni di corso (in particolare con Mario Piacenza)
accomunati dall'interesse per la chimica; con altri compagni invece
fondò una sorta di gruppo sportivo-fan club intitolato al corridore Luigi Beccali[9]. Negli anni del Ginnasio fu compagno di Fernanda Pivano;
nel Liceo frequentò il Corso B, solo maschile, a differenza di Fernanda
Pivano che, nel corso A, ebbe come supplente di Italiano in I Liceo
Cesare Pavese[10]; Levi fu allievo di Azelia Arici, con cui rimase in contatto nel corso della sua vita e cui dedicò un necrologio pubblicato su La Stampa[11]. Nel corso del liceo nacque il suo amore per la montagna. Nel 1936-1937 fu uno dei redattori del numero unico del D'Azeglio sotto spirito, rivista della scuola, su cui pubblicò la sua prima poesia Voi non sapete studiare, in cui racconta le sue disavventure nel tentativo di raccogliere un erbario su indicazione della professoressa di scienze.[12]
In quel periodo maturerà in Levi l'intenzione di intraprendere una
carriera nella chimica, annunciando la propria decisione in tal senso al
padre nel giorno del suo sedicesimo compleanno, il 31 luglio 1935[9].

Nel 1937, dopo essere stato rimandato in italiano a giugno, si diplomò al Liceo classico Massimo d'Azeglio superando l'esame di maturità a settembre[13][14] e si iscrisse al corso di laurea in chimica presso l'Università di Torino. Il padre di Primo si era iscritto di malavoglia al partito fascista. Nel novembre del 1938 entrarono in vigore in Italia le leggi razziali
dopo quelle in Germania, dove già l'antisemitismo si era manifestato
attraverso atti di violenza e sopraffazione. Tali leggi avevano
introdotto gravi discriminazioni ai danni dei cittadini italiani che il regime fascista
considerava "di razza ebraica". Le leggi razziali ebbero un
determinante influsso indiretto sul suo percorso universitario e
intellettuale.
«Nella mia famiglia si accettava, con qualche insofferenza, il
fascismo. Mio padre […] si era iscritto al partito di malavoglia, ma si
era pur messo la camicia nera. Ed io fui balilla e poi avanguardista. Potrei dire che le leggi razziali restituirono a me, come ad altri, il libero arbitrio.[15]»
Le leggi razziali precludevano l'accesso allo studio universitario
agli ebrei, ma concedevano di terminare gli studi a coloro che li
avessero già intrapresi. Negli anni dell'università frequentò circoli di
studenti antifascisti; leggeva Darwin, Mann, Tolstoj. Pur in regola con
gli esami, a causa delle leggi razziali ebbe difficoltà a trovare un
relatore per la sua tesi, finché nel 1941 si laureò con lode, con una tesi compilativa in chimica (L'inversione di Walden, relatore il professore Giacomo Ponzio[16])[17]:
in realtà discusse una tesi e due sottotesi, una delle quali, in fisica
sperimentale, avrebbe dovuto essere la tesi principale se agli ebrei
non fosse stato impedito di svolgere ricerca in laboratorio. Il diploma
di laurea riporta la precisazione «di razza ebraica».
In quel periodo suo padre si ammalò di tumore.
Le conseguenti difficoltà economiche resero affannosa la ricerca di un
impiego. Levi fu assunto in maniera semi-illegale da un'impresa (non
appariva ufficialmente nei libri paga, pur lavorando in un laboratorio),
con il compito di trovare un metodo economicamente conveniente per
estrarre le tracce di nichel contenute nel materiale di scarto di una cava d'amianto presso Lanzo (l'Amiantifera di Balangero, anche se Levi, nel suo racconto Nichel,
non la nomina mai). A questo periodo si fanno con probabilità risalire i
primi esperimenti letterari come la poesia Crescenzago o il progetto di
un racconto di montagna. Nel 1942 si trasferì a Milano, avendo trovato un impiego migliore presso la Wander, una fabbrica svizzera
di medicinali, dov'era incaricato di studiare alcuni farmaci contro il
diabete. Qui Levi, assieme ad alcuni amici, venne in contatto con
ambienti antifascisti militanti ed entrò nel Partito d'Azione clandestino.


Dopo l'8 settembre 1943 si rifugiò in montagna, unendosi a un nucleo partigiano operante in Valle d'Aosta. Il periodo di militanza fra i partigiani del Col de Joux
è stato quello che Levi stesso ha giudicato un'esperienza di giovani
ben intenzionati, ma sprovveduti, privi di armi e di solidi contatti,
come Levi afferma in una lettera a Paolo Momigliano Levi[18].
La sua esperienza partigiana è stata oggetto di due saggi usciti a
pochi mesi di distanza nel 2013 e di una dura polemica giornalistica[n 2]. Poco dopo, all'alba del 13 dicembre 1943, venne arrestato insieme a due compagni dalla milizia fascista nel villaggio di Amay, sul versante verso Saint-Vincent del Col de Joux (tra Saint-Vincent e Brusson). Interrogato, preferì dichiararsi ebreo piuttosto che partigiano e per questo fu trasferito nel campo di Fossoli[19], presso Carpi, in provincia di Modena.
Il 22 febbraio 1944 Levi e altri 650 ebrei, donne e uomini, furono stipati su un treno merci (oltre 50 persone in ogni vagone) e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia;
il viaggio durò cinque giorni. Levi fu qui registrato (con il numero
174517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto
come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell'Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945.

Levi attribuì la propria sopravvivenza a una serie di incontri e
coincidenze fortunate. Innanzitutto, leggendo pubblicazioni scientifiche
durante i suoi studi, aveva appreso un tedesco elementare, e riusciva quindi a comprendere gli ordini impartitigli; di grande importanza fu parimenti l'incontro con Lorenzo Perrone,
un civile occupato come muratore, il quale, esponendosi a un grande
rischio personale, gli fece avere regolarmente del cibo. In un secondo
momento, verso la fine del 1944, fu esaminato da una commissione di selezione, incaricata di reclutare chimici per la Buna, una fabbrica per la produzione di gomma sintetica di proprietà del colosso chimico tedesco IG Farben.

Durante una visita al memoriale del campo di Buchenwald
Insieme ad altri due prigionieri (entrambi poi deceduti durante la marcia di evacuazione)
ottenne, superato l'esame, un posto presso il laboratorio della Buna,
dove svolse mansioni meno faticose ed ebbe la possibilità di
contrabbandare materiale con il quale effettuare transazioni per
ottenere cibo. Nel far ciò si avvalse della collaborazione di un altro
prigioniero al quale fu molto legato, Alberto Dalla Volta, anch'egli italiano. Infine, nel gennaio del 1945, immediatamente prima della liberazione del campo da parte dell'Armata Rossa, si ammalò di scarlattina e venne ricoverato nel Ka-be (dal tedesco Krankenbau,
in italiano "infermeria del campo"); i tedeschi evacuarono il campo e
abbandonarono i malati, così Levi scampò fortunosamente alla marcia di evacuazione da Auschwitz, nella quale sarebbe morto Alberto. Fu uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani arrivati con lui al campo.
Il viaggio di ritorno in Italia, narrato nel libro di memorie La tregua, sarà lungo e travagliato. Levi fece l'infermiere per qualche mese a Katowice,
in un campo sovietico di transito; a giugno iniziò il viaggio di
rimpatrio, che si protrasse fino a ottobre: percorsero un itinerario che
dalla Russia Bianca li condusse in patria attraverso Ucraina, Romania, Ungheria e Austria.
Giunto a Torino, si riprese dal punto di vista fisico e riallacciò i contatti con i familiari e gli amici superstiti della Shoah; trovò lavoro nella fabbrica di vernici Duco-Montecatini ad Avigliana, vicina a Torino, da cui si licenziò nel 1947.
L'esperienza nel campo di concentramento lo segnò profondamente: l'incubo vissuto nel lager lo spinse subito a scrivere un testo che fosse testimonianza della sua esperienza ad Auschwitz e che verrà intitolato Se questo è un uomo. Cinque capitoli dell'opera erano già stati pubblicati tra il 29 marzo e il 31 maggio 1947 ne "L'amico del popolo",
organo della Federazione comunista vercellese e in seguito rivisti. La
pubblicazione dell'opera su questo periodico si deve all'interessamento
di Silvio Ortona, amico dell'autore. Nel 1945 fu poi aggiunta la poesia Buna Lager, sempre pubblicata sul giornale. In seguito conobbe Lucia Morpurgo
(1920-2009) che diventò sua moglie a settembre 1947: questo incontro,
insieme al lavoro di chimico, gli permise di superare il momento più
doloroso del ritorno e di dedicarsi alla stesura di Se questo è un uomo. Ne Il Sistema periodico Primo Levi definisce il suo scrivere un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s'industria di rispondere ai perché[20]. Nel 1947 terminò il manoscritto, ma molti editori, tra cui Einaudi, lo rifiutarono; la scelta editoriale di non accettare il testo per la pubblicazione presso Einaudi venne presa da Natalia Ginzburg, all'epoca consulente della casa editrice torinese[21]. Fu pubblicato da un piccolo editore, De Silva, a cura di Franco Antonicelli. Nonostante la buona accoglienza della critica, inclusa una recensione favorevole di Italo Calvino su l'Unità, incontrò uno scarso successo di vendita. Delle 2500 copie stampate furono venute solo 1500, soprattutto a Torino.

Seduto alla scrivania mentre legge, 1960
L'opera di Levi fu uno dei primissimi memoriali di deportati ebrei
nei campi di sterminio nazisti. Sette furono i deportati ebrei autori di
racconti autobiografici pubblicati in Italia nei primi anni del
dopoguerra: Lazzaro Levi alla fine del 1945, Giuliana Fiorentino Tedeschi, Alba Valech Capozzi, Frida Misul e Luciana Nissim Momigliano nel 1946, e infine nel 1947 Primo Levi e Liana Millu. A essi vanno aggiunti Luigi Ferri,
la cui deposizione (in tedesco) è resa nell'aprile 1945 di fronte a uno
dei primi tribunali chiamati a giudicare sui crimini nazisti; Sofia Schafranov, la cui testimonianza è raccolta nel 1945 in un libro-intervista di Alberto Cavaliere, e Bruno Piazza, il cui memoriale, scritto negli stessi anni, sarà però pubblicato solo nel 1956[22]. Prima di Se questo è un uomo, Levi aveva scritto con il dottor Leonardo De Benedetti[23][24], su richiesta delle autorità russe, Rapporto su Auschwitz,
il primo saggio che descriveva le condizioni sanitarie nei campi di
concentramento. Levi abbandonò quindi il mondo della letteratura e si
dedicò alla professione di chimico. Dopo una breve esperienza come
lavoratore autonomo con un amico, trovò impiego presso la Siva, una ditta di produzione di vernici di Settimo Torinese,
di cui, in seguito, assunse la direzione fino al pensionamento. Nel
1948 nacque sua figlia Lisa Lorenza, nel 1957 il figlio Renzo.
Nel 1955, una mostra sulla deportazione a Torino
incontrò uno straordinario riscontro di pubblico: Levi si rese conto
del grande interesse per la Shoah, soprattutto tra i giovani. Partecipò a
numerosi incontri pubblici (soprattutto nelle scuole). Aveva intanto
riproposto a Einaudi, nel 1955 Se questo è un uomo, che decise di pubblicarlo nel giugno 1958:
questa nuova edizione, con modifiche e aggiunte, in particolare la
parte introduttiva dove Levi racconta il suo arresto, incontrò un
successo immediato. Dal 1959 collaborò alle traduzioni delle sue opere in inglese e in tedesco:
quest'ultima traduzione era particolarmente significativa per Levi (uno
degli obiettivi che si era proposto scrivendo il suo romanzo era far
comprendere al popolo tedesco che cosa era stato fatto in suo nome e di
fargliene accettare una responsabilità almeno parziale). Incoraggiato
dal successo internazionale, nel 1962, quattordici anni dopo la stesura di Se questo è un uomo, incominciò a lavorare a una nuova opera sul viaggio di ritorno da Auschwitz: quest'opera fu intitolata La tregua, scritta metodicamente (a differenza di Se questo è un uomo) e vinse la prima edizione del Premio Campiello (1963)[25];
incontrò un buon successo tra la critica. Nella sua produzione
letteraria successiva, prendendo spunto dalle proprie esperienze come
chimico, l'osservazione della natura e l'impatto della scienza e della
tecnica sulla quotidianità diventarono lo spunto per originali
situazioni narrate in racconti pubblicati su Il Giorno.
In questo periodo, la sua vita è nettamente divisa in tre
impegni: la fabbrica, la famiglia, la scrittura. Compì numerosi viaggi
di lavoro in Germania e Inghilterra. Nel 1965 tornò ad Auschwitz per una
cerimonia commemorativa.
Fece molti viaggi di lavoro in Unione Sovietica; nel 1975
decise di andare in pensione (abbandonando la direzione della fabbrica,
ma restandone consulente per due anni) e di dedicarsi a tempo pieno
alla scrittura. Nello stesso anno uscì la raccolta di racconti Il sistema periodico,
in cui episodi autobiografici e racconti di fantasia vengono associati
ciascuno a un elemento chimico. L'opera gli valse il Premio Prato per la
Resistenza. Il 19 ottobre 2006 la Royal Institution del Regno Unito scelse quest'opera come il miglior libro di scienza mai scritto[26].

Nel 1978 pubblicò La chiave a stella.
Questa raccolta di racconti il cui protagonista è il medesimo
personaggio, Libertino Faussone, rappresenta un omaggio al lavoro
creativo e in particolare a quel gran numero di tecnici italiani che
hanno lavorato in giro per il mondo a seguito dei grandi progetti di
ingegneria civile portati avanti dall'industria italiana dell'epoca (anni sessanta e anni settanta).
In particolare dopo aver ottenuto la pensione Levi si dedicò
completamente alla scrittura e agli incontri nelle scuole. Nel luglio
del 1979 La chiave a stella vinse il premio Strega.[27]; Claude Lévi-Strauss elogiò il romanzo.
Nel 1982 tornò al tema della seconda guerra mondiale, raccontando in Se non ora, quando?, le avventure picaresche
di un gruppo di partigiani ebrei di origini polacche e russe che
tendono imboscate ai tedeschi sul fronte orientale e giungono ad
attraversare i territori del Reich sconfitto, sino a Milano, da dove alcuni prenderanno la via della Palestina per partecipare alla costruzione dello Stato di Israele. Il libro vinse nel 1982 il Premio Campiello e il Premio Viareggio.[28]
Tornò per la seconda volta ad Auschwitz, provando grande emozione. Prese posizione, con un articolo su La Repubblica, contro Israele[29], che aveva invaso il Libano. Intraprese la traduzione de Il processo, su invito di Giulio Einaudi, e poi di due opere di Lévi-Strauss.
Nella raccolta di saggi I sommersi e i salvati (1986),
prendendo spunto dai molti dialoghi con i giovani, in incontri pubblici
e scambi epistolari, tornò per l'ultima volta sul tema dell'Olocausto,
cercando di analizzare con distacco la sua esperienza, chiedendosi
perché le persone si siano comportate in quel modo ad Auschwitz e perché
alcuni siano sopravvissuti e altri no. In particolare estese la sua
analisi alla "zona grigia", come egli la definì, rappresentata da tutti
coloro che a vario titolo e con varie mansioni avevano partecipato al
progetto concentrazionario nazista.
«È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema
infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al
contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più
esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale.
Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che
separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di
farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si
sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può
sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di
figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un
tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie
umana […].[30]»
La morte
Primo Levi venne trovato morto l’11 aprile 1987 nell'atrio del palazzo di corso Re Umberto 75 a Torino,
dove viveva. Il corpo fu rinvenuto alla base della tromba delle scale
dello stabile, a seguito di una caduta. Benché l'ipotesi di gran lunga
più accreditata sia quella del suicidio,[31][32][33][34] alcuni sostennero che la caduta potesse essere stata provocata dalle forti vertigini di cui Levi soffriva[32][35]; anche Levi Montalcini negò decisamente che si trattasse di suicidio[36].
Il corpo di Levi è sepolto presso il campo israelitico del Cimitero monumentale di Torino.[37]